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Ignazio Vian nacque a Venezia il 9 febbraio del 1917 da Agostino e da Giuseppina Castagna. La famiglia di origini friulane era profondamente cattolica e legata agli ambienti religiosi veneziani[1].  Il padre Agostino, avvocato, ebbe cariche e impieghi pubblici in Venezia, la madre, era di nobili origini[2].

Trascorse gli anni giovanili presso la città natale dove, nel tempo, ebbe modo di frequentare le scuole elementari e medie inferiori per poi passare al Collegio Lodovico Manin gestito dagli Orionini. Raggiunto il Diploma Magistrale che lo abilitava alla vigilanza sulle scuole elementari, si trasferì insieme alla famiglia a Roma, dove poté iscriversi alla facoltà di Magistero dell’Università “La Sapienza” per dedicarsi agli studi letterari verso i quali, fin da giovane, aveva sempre dimostrato interesse e passione. Fu nel corso del periodo trascorso nell’Ateneo romano che aderì al locale circolo della Fuci. Dopo aver svolto la professione di insegnante presso alcuni istituti scolastici della Capitale, Vian venne chiamato alle armi per mobilitazione (con matricola n. 372925-18) nel periodo appena successivo all’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e assegnato il 24 giugno 1940 all’8° Reggimento Artiglieri di corpo d’armata in Roma. Congedato nel luglio successivo, in attesa di frequentare il corso allievi ufficiali di complemento; nel gennaio del 1941 fu nuovamente richiamato in servizio perché ammesso a frequentare il corso per allievi ufficiali di complemento di Arezzo, ottenendo il 30 giugno la nomina a Sottotenente e il 17 agosto dello stesso anno la destinazione al deposito della Guardia alla Frontiera di Boves (Cuneo).

Le notizie sulle crudeltà perpetrate da alcuni reparti tedeschi nei territori occupati, apprese durante il servizio, scossero fortemente il suo animo profondamente cristiano e, colto da profondo sdegno, ebbe a scrivere in un quaderno d’appunti:

«Questo orrore ci è tanto più vergognoso in quanto noi figli dei martiri dell’indipendenza nazionale, nemici naturali di ogni genere di oppressione e di brutalità, incatenati alla biga di un pazzo, siamo costretti a secondarlo, aiutando con tutti i mezzi e col sangue il mostro del secolo».

Trattenuto ancora in servizio nel marzo del 1942, passò alla 12ª compagnia mobile mobilitata del II Settore di copertura presso la quale, l’anno seguente, venne raggiunto dalla notizia della caduta del regime fascista e, in seguito, da quella della firma dell’armistizio di Cassibile che sanciva definitivamente la fine delle ostilità con gli angloamericani.

Dovendo constatare l’ambiguità degli ordini provenienti dai comandi militari delle forze armate e, per questo, lo sbandamento dei reparti del Regio Esercito che si trovavano a dover affrontare senza direttive i difficili eventi successivi all’annuncio della resa, Vian decise di non rispondere all’intimazione di cedere le armi proveniente dai tedeschi e si affrettò a lasciare il proprio posto per non correre il rischio di essere catturato e deportato nei campi in Germania. Nello smarrimento in cui ciascuno era piombato in quel tragico 8 settembre Vian non aveva esitato un istante. Fu tra i primi ad attraversare Boves per salire in montagna, a San Giacomo. Egli non era un ufficiale di carriera era un poeta un uomo di lettere, tuttavia, in lui vivevano le tradizioni per cui tante e tante migliaia di soldati erano caduti in una guerra assurda e senza speranza e per cui tanti altri ancora dovevano morire.

Giunto nei pressi del Monte Bisalta, la montagna che sovrasta l’abitato di Boves, si attivò subito per organizzare e dirigere un piccolo nucleo di partigiani che intendevano opporsi all’occupazione tedesca. La zona, compresa tra la Val Corsaglia, la Val Colla e le Langhe nel Monferrato, che occupò con il suo gruppo, fu infatti lo sbocco naturale di tanti ex militari che, in seguito allo scioglimento della IV Armata italiana di stanza nel territorio della Francia occupata, si erano dati alla macchia per non cadere prigionieri dei tedeschi.

Il 15 settembre 1943 a San Giacomo di Boves si trovavano quasi 2000 uomini, un cannone, con un proietto, parecchie mitragliatrici, molti autocarri, un Maggiore che comandava, Vian che aveva funzioni di subalterno, alcune sentinelle con l’elmetto e baionette innestata. Nessuno di essi era mosso da ideologie politiche. Tutti quegli uomini, ufficiali e soldati così raccogliticci dovevano trovare solo in loro stessi la forza e la ragione di resistere insieme, di combattere ancora.

In questo senso, data la comune provenienza dagli ambienti militari di molti dei suoi compagni e il diffuso sentimento di fedeltà e lealtà nei confronti del giuramento fatto al Re, Vian decise di organizzare il suo gruppo, che in breve tempo arrivò a contare circa 150 uomini, con regole e metodi che ricalcassero la formazione ricevuta nell’Esercito.

Dei caratteri della scelta armata compiuta dal giovane ebbe modo di parlare Don Michele Pellegrino[3], allora professore all’Università di Torino, con il quale Vian si incontrò diverse volte durante il periodo trascorso tra i monti vicino Boves:

«Compresi che la sua coscienza sentiva acutamente questi problemi. D’altra parte, della giustizia della causa da lui seguita era fermissimamente convinto. Affermava anzi risolutamente essere dovere d’ogni italiano lottare con le armi contro la repubblica fascista, non ammettendo nessuna forma di collaborazione, né di passività».

Nel primo periodo di organizzazione del movimento resistenziale in Piemonte, il nome di Vian, che nel frattempo era noto anche con il nome di battaglia “Azio”, si legò agli eventi che portarono al tristemente noto eccidio di Boves. Il 16 settembre del 1943, dopo una inconcludente opera di affissione di manifesti per intimare ai militari del Regio Esercito sbandatisi di consegnarsi per essere avviati ai campi di concentramento in Germania, un reparto della 1ª Divisione corrazzata Leibstandarte-SS Adolf Hitler agli ordini dello SS-Sturmbannführer Joachim Peiper, si recò in forze nella cittadina di Boves per esigere la consegna delle armi e la resa delle prime bande di partigiani organizzatisi in zona.

Quando, il 19 settembre successivo (domenica), due sottoufficiali tedeschi impegnati in una operazione di requisizione nella cittadina piemontese furono catturati dagli uomini del gruppo di Vian, scesi in paese per rifornimento viveri, la reazione nazista non tardò ad abbattersi sulla popolazione civile.

Dopo aver inviato presso i partigiani una delegazione composta dal parroco Don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo, piccolo industriale della zona, allo scopo di ottenere il rilascio dei prigionieri, Peiper decise di attuare la rappresaglia ancor prima di conoscere il risultato dell’ambasciata. Nonostante l’avvenuta liberazione degli ostaggi concessa dallo stesso Vian, infatti, i tedeschi decisero di attaccare con forza le postazioni dei partigiani, di incendiare l’abitato di Boves e di condurre una feroce rappresaglia contro i civili rei, secondo loro, di aver dato sostegno ai ribelli sulle montagne. La giornata terminò con l’uccisione di ventitré civili fra cui il parroco, Don Giuseppe Bernardi[4], che aveva tentato di ottenere il rilascio dei due tedeschi e con più di trecento case rase al suolo. Gli ex militari non se la sentirono di continuare una lotta che avrebbe avuto conseguenze terribili per la popolazione civile. Non conoscevano i metodi utilizzati dai tedeschi e non erano ancora preparati era mancato il tempo per dare organicità e coesione ai reparti. Fu una fuga generale.

Non cedendo alla tragica dimostrazione tedesca, Vian decise di riorganizzare nuovamente il proprio gruppo nel territorio intorno a Boves fino a quando, individuata ancora come base partigiana, la cittadina venne nuovamente fatta oggetto della furia repressiva tedesca.

Nei giorni a cavallo tra dicembre del 1943 e gennaio del 1944 venne ancora condotto un duro rastrellamento che portò, forzatamente, allo scioglimento della banda alle sue dipendenze e alla scelta di non costringere la popolazione a dover correre il rischio di ulteriori pericoli. Deciso comunque a rinnovare la volontà di dare un contributo alla causa della Resistenza, Vian passò in Val Corsaglia e nella primavera del 1944 prese contatti con Enrico Martini «Mauri» per far confluire i suoi uomini tra le fila del 1° gruppo divisioni alpine e assumere, vista la sua influenza, il ruolo di vicecomandante del raggruppamento. Mentre si spendeva per organizzare e coordinare la nuova formazione, il 19 aprile fu individuato a seguito di delazione e catturato da militi delle SS alla stazione di Torino dove si trovava per svolgere una delicata missione affidatagli dal locale CLN. Posto in stato di arresto, venne condotto prima nei locali dell’albergo Nazionale del capoluogo piemontese, allora sede del comando militare delle SS, quindi nel settore tedesco delle Carceri Nuove, dove occupò la cella numero 17.

Da questa data cominciò per lui un duro periodo di detenzione volto a debilitarlo nel fisico e fiaccarlo nel morale, allo scopo di estorcergli quante più informazioni utili all’individuazione della banda partigiana posta al suo comando e, soprattutto, i nominativi dei responsabili del movimento resistenziale della zona. Condotto giornalmente alla caserma di via Asti, Vian venne torturato e seviziato ma, trinceratosi dietro un ostinato silenzio, ribadì a più riprese di non voler rivelare niente.

Le sofferenze patite durante gli interrogatori e la volontà di non cedere davanti agli aguzzini lo indussero a tentare il suicidio, tagliandosi le vene con un coccio di vetro che aveva trovato nel tragitto tra il luogo di detenzione e quello di tortura e conservato allo scopo.

Questo estremo atto di fedeltà alla causa non ebbe successo perché, scoperto dai suoi carcerieri, fu immediatamente sottoposto alle cure necessarie perché fosse in condizioni di ricevere la pena di morte che gli era stata inflitta. Durante il periodo trascorso in carcere, a riprova della sua volontà di non rivelare nulla sui suoi compagni di battaglia, ebbe modo di scrivere con il sangue sul muro della sua cella: «Meglio morire che tradire». Su una pagnotta che venne ritrovata successivamente e che ora è conservata dai familiari incise un brevissimo messaggio per la madre: «Coraggio mamma».

Il 22 luglio del 1944, a seguito del ferimento di un comandante fascista del gruppo carri “Leonessa” per mano dei partigiani, sei uomini detenuti alle Carceri Nuove e del tutto  estranei all’operazione vennero selezionati per la rappresaglia. Senza alcun formale processo, Vian fu tra i nominativi designati e, condotto in corso Vinzaglio insieme a tre compagni, venne impiccato a un albero e lasciato alla vista dei passanti che, a scopo dimostrativo, vennero costretti a sostare per assistere all’esecuzione.

Gli altri due detenuti prescelti subirono la stessa sorte in viale Giulio Cesare, presso l’imbocco dell’autostrada Torino-Milano. I corpi dei sei partigiani rimasero appesi per una settimana per l’irremovibile volontà del comando tedesco, che, inoltre, ne vietò la sepoltura a ulteriore monito per la popolazione della Città[5].

Con Decreto del 25 febbraio 1916, alla memoria di Ignazio Vian Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera e Partigiano combattente del 1° Gruppo Divisioni Alpine fu conferita di “Motu Proprio” del Luogotenente Generale del Regno, Umberto di Savoia Principe di Piemonte, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.[6]

 

Motivazione

 

«Primo fra i primi, organizzava il fronte della resistenza in Piemonte affrontando in campo aperto il tedesco invasore ed assumendo quindi la condotta della più epica battaglia della guerra partigiana tra gli incendi e le rovine di Boves, dove, chiamati a raccolta col suono delle campane i suoi volontari, in quattro giorni di dura lotta li incitava alla riscossa con la parola, l’esempio e il suo strenuo valore.

         Caduto in mano al nemico, con stoicismo sopportò le torture più atroci pur di non tradire i compagni di lotta.         Sereno e cosciente salì al capestro nel nome d’Italia, martire della libertà, santo dell’idea

Boves, 9 settembre 1943-Torino, 22 luglio 1944.[7]

 

 Vincenzo Gaglione

 

Letture:

 

  • Torino 1938/45. Una guida per la memoria, Città di Torino, Istoreto, 2000, Torino, 105.
  • Seicento giorni nella Resistenza, Consiglio Regionale del Piemonte, 1983, Torino, pagg. 10-15.
  • Nardo Dunchi, Memorie partigiane, Quaderni del Ponte, 1953, Firenze.
  • Aroldo Figara, Guardia alla Frontiera, Stella del Mare, 1990, Livorno.
  • Mario Giovana, Ignazio Vian, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza. Luoghi, formazioni, protagonisti, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pag. 666.
  • Vittorio Emanuele Giuntella (a cura di), Ignazio Vian: il difensore di Boves, Tipografia Mutilatini di Guerra, 1954 1^ Edizione, Roma.
  • Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare, Le Medaglie d’Oro al Valore Militare, Volume secondo (1942-1959), Tipografia Regionale, 1965, Roma, p. 503.
  • Piero Malvezzi, Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana: 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Einaudi, 2003, Torino, pag. 332.
  • Mauri (Enrico Martini), Con la libertà e per la libertà, Società editrice torinese, 1947, Torino; dello stesso, Ignazio Vian, Europa Libera, anno IV, n. 1-15, gennaio 1958.
  • Formazioni autonome nella resistenza, Gianni Perona (a cura di), Angeli, 1996, Milano, pagg. ad indicem
  • Boves partigiana, Patria del 16 luglio 1961, pag. 12.

 

[1] Il 9 febbraio 1917 in Venezia nasce Vian Ignazio Antonio Gaetano Domenico Giuseppe Maria, figlio di Agostino e di Castagna Giuseppina. Archivio Storico del Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia.

[2]  Il patriarca Giuseppe Sarto, amico di famiglia aveva celebrò il matrimonio dei genitori poco prima di essere eletto papa Pio X; alcuni fratelli furono impegnati nella società civile e religiosa, come Nello (1907-2000), scrittore e segretario della Biblioteca Vaticana, Domenico (“Memi”) (1908-1931), esponente della Compagnia di San Paolo, Francesco (“Cesco”) (1912-2013), ispanista, Maria (1914-1995), entrata nella Congregazione delle Figlie della Chiesa. https://www.jstor.org/stable/43049950

[3] Cardinale Michele Pellegrino, nato a Roata Chiusani il 25 aprile 1903, muore in Torino il 10 ottobre 1986; dall’anno accademico 1941-1942 fu titolare della cattedra di Letteratura Cristiana Antica dell’Università degli Studi di Torino.  Pellegrino nel 1944 aiutò la partigiana Malvina Garrone Ronchi Della Rocca (“Sonia”) a sfuggire all’arresto. Un inedito di Michele Pellegrino del dicembre del 1981, a cura di C. Mazzucco e P. Siniscalco, in Archivio Teologico Torinese 22/2 (2016), pagg. 297–310 et passim

[4] Il 19 settembre 1943 don Giuseppe Bernardi viene catturato dalle SS e bruciato la notte stessa in quello che è noto come eccidio di Boves, prima strage nazista di civili in Italia, insieme a lui venne ucciso anche il viceparroco don Mario Ghibaudo, sacerdote da poche settimane. Il corpo viene scoperto la mattina del giorno seguente. Don Bernardi è stato beatificato con don Mario Ghibaudo il 16 ottobre 2022 a Boves, nella celebrazione presieduta dal Cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, in rappresentanza del Papa, affiancato dal Vescovo di Cuneo e di Fossano, Mons. Piero Delbosco e dal presidente della Conferenza episcopale piemontese, Mons. Franco Lovignana. https://www.agensir.it/chiesa/2022/10/15/don-bernardi-e-don-ghibaudo-sacerdoti-martiri-nelleccidio-nazista-del-43-a-boves/

[5] Il tragico episodio lasciò un tale retaggio nella memoria cittadina che il 29 aprile del 1945, a liberazione già avvenuta, nello stesso luogo venne impiccato il Federale di Torino Giuseppe Solaro.

[6] Decreto registrato alla Corte dei Conti il 16 aprile 1946. Registro 5 – Guerra- Foglio 38.

[7] https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/13438