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Solo da poco è stata avvertita la necessità di una legge che propone la protezione dal dolore come un diritto e, tuttavia, il fatto che si sia lontani dalla sua piena applicazione suggerisce quanto I’argomento sia complesso e denso di aspetti clinici, culturali, bioetici e persino antropologici.

Molto deve aver giocato l’alone di fatalità e di provvidenzialità in cui il dolore è sempre rimasto avvolto. La fatalità gli si lego all’alba della cultura giudaico-cristiana quando il dolore divenne la pena senza appello per I ‘offesa a Dio: i nostri progenitori avevano infranto il suo divieto di cogliere il frutto dall’albero della conoscenza.

Allora perché mai non rassegnarsi all’ineluttabilità del dolore a seguito di ogni trauma, atto chirurgico o espletamento di parto? La convinzione che il dolore costituisse un fenomeno “provvidenziale” scaturì anch’essa in tempi remoti, quando la filosofia e lo studio
della natura (e perciò anche la medicina) erano compagne inseparabili. Per oltre duemila anni tanto nel mondo cristiano quanto in quello islamico la figura del filosofo e quella del medico frequentemente coincisero.

La filosofia spesso offrì soluzioni logiche a supplenza della scarsità delle argomentazioni scientifiche e fu così che il pensiero teleologico attribuì al dolore quasi unicamente il merito di promuovere nei viventi il rapido distanziamento dagli agenti nocivi a salvaguardia della propria incolumità.

A cavallo tra il XIX ed il XX secolo gli studi sulla fisiopatologia spinale credettero di corroborare quel pensiero con evidenze scientifiche: a quel tempo la cosiddetta “omeostasia” veniva ancora considerata unicamente quale meccanismo di autoregolazione finalizzato alla fisiologia, ossia al mantenimento dello stato di salute e, conseguentemente, il dolore venne rubricato quale fenomeno “omeostatico” e auto conservativo. Quel pensiero teleologico faceva discendere quasi automaticamente che il dolore fosse una specifica modalità di senso (come il tatto e la vista) e, pertanto, che dovesse avere a suo sostegno recettori e vie nervose a lui specificamente dedicati.

Con queste premesse culturali si comprende come abbia potuto resistere a lungo l’idea che controllare il dolore potesse rendere l’essere vivente inconsapevole della minaccia rappresentata dagli agenti lesivi e come si sia dimostrata ostinata la convinzione che il dolore successivo al trauma o all’atto chirurgico non dovesse essere placato per non rischiare di mascherare l’insorgenza di questa o di quella complicazione.

Si comprende anche perché, ad esempio, le terapie a base di oppiacei siano state a lungo sottoimpiegate (quando non persino demonizzate) e la buona pratica dei “blocchi antalgici” sia stata messa in campo molto al di sotto delle sue dimostrate possibilità. Inizialmente ci volle
la genialità eretica e creativa di quei pochi che riuscirono a opporsi con autorevolezza a quella cultura dominante, poco disposta a concessioni e composta di un insieme di convinzioni scientifiche dalle basi fragili e di credenze religiose e popolari.

 

di Giuseppe Deiana