In seguito all’articolo precedente, ho ricevuto numerosi interessantissimi contributi da parte di contatti con esperienza specifica in campo economico, che mi hanno aiutato a cercare di chiarire l’intento della politica tariffaria dell’attuale Amministrazione americana.
Il quadro che è emerso apparentemente indicherebbe (uso il condizionale perché mi riferisco a quanto ho creduto di capire in un ambito che esula dalle mie competenze dirette) che gli obiettivi strategici di Trump sarebbero due: aggredire il debito pubblico americano e incoraggiare la rilocalizzazione manifatturiera sul territorio statunitense. Per fare ciò, Trump cercherebbe di svalutare il dollaro e incoraggiare i produttori stranieri a spostare la loro produzione in America (di qui la ragione diretta di imporre i dazi), e allo stesso tempo ottenere da parte degli investitori internazionali detentori di una parte significativa del debito pubblico americano, di convertire i propri buoni a breve termine in altri a lungo e lunghissimo termine (e in quest’ultimo caso i dazi andrebbero a costituire uno strumento di pressione sulle potenze in possesso di tali buoni, in particolare EU, Giappone e Cina). Concettualmente, i dazi sarebbero “permanenti” solo fino a che non fossero rinegoziati separatamente da una posizione di forza.
Obiettivamente, si tratterebbe effettivamente di intenti ragionevoli da parte di un Governo che si sia proposto di migliorare la postura finanziaria del suo paese. Nello stesso tempo però mi sembra di capire che la maggior parte degli esperti considerino le tattiche impiegate per perseguire tali intenti piuttosto rozze se non addirittura controproducenti. In particolare, non solo il livello delle tariffe sembrerebbe basato su un algoritmo incongruente (la famosa formula emersa in rete basata sul disavanzo commerciale dei beni e “venduta” come reciprocità tariffaria), ma soprattutto sarebbe controindicato aver applicato i dazi contemporaneamente a tutto il pianeta (tranne Russia, Bielorussia e San Marino) invece di ricorrere ad una strategia mirata contro un bersaglio alla volta. Quest’ultimo punto in particolare priverebbe l’America della possibilità di ri-delocalizzare quelle produzioni che non è conveniente riportare in America: come la Nike che produce in Vietnam, dove è colpita da dazi altissimi, e che non ha modo di spostarsi in India o nelle Filippine, che sono ugualmente colpite.
L’altro grosso problema che emerge, soprattutto nei confronti della EU, è quello di “cosa” siano i dazi. Infatti, secondo Trump i dazi imposti all’Europa (il 20%) sarebbero “la metà” (per sua generosità) di quanto l’EU imporrebbe alle merci americane che entrano nel vecchio continente. Peccato che secondo il WTO (da sempre dominato proprio dagli USA) i dazi europei in questione sarebbero inferiori al 3%. Ora, il fatto è che Trump considera “dazi” anche la VAT (la nostra IVA), che dazio non è in quanto è pagata anche dai produttori europei, ma che non esistendo o quasi in America secondo il MAGA penalizzerebbe i prodotti americani. Siamo qui su una differenza strutturale fondamentale fra le due sponde dell’Atlantico, in quanto rispetto a noi, in America le tasse sono anatema e i servizi pubblici (che attraverso le tasse si finanziano) non sono necessariamente dovuti.
Fin qui, ciò che – in sintesi – mi sembra di aver capito della politica di Trump grazie a quanto appreso attraverso le mie fonti economicamente competenti sul web. Ove avessi equivocato qualcosa, prego i miei contatti di segnalarmelo…
Veniamo ora alla MIA analisi, condotta sulla base delle mie competenze sullo studio dei rapporti di forza; in questo caso però, più che sull’aspetto militare, ci si riferirà al più ampio spettro del potenziale complessivo dei grandi attori mondiali (di cui quello militare è parte).
Trump sta semplicemente giocando una classica politica di potenza: sfrutta il peso strategico dell’America per imporsi sugli altri attori mondiali e ottenere quanto ritiene necessario. Si tratta in fondo di perseguire obiettivi già prefissati – e spesso realizzati – da suoi predecessori. In particolare, l’idea di ottenere dagli alleati un generale allungamento dei termini di rendimento dei buoni del Tesoro (cioè un contributo da parte loro nel sostegno del debito pubblico americano), è già stata sviluppata con successo da Ronald Reagan.
La differenza però consiste nel fatto che Reagan eseguì il suo piano dopo un’accurata preparazione diplomatica, senza abbinare la richiesta sui buoni ad una politica tariffaria aggressiva, ed offrendo in cambio un allargamento invece che una riduzione dell’ombrello protettivo americano su Europa e Giappone; insomma, presentò le sue richieste indorando il più possibile la pillola e offrendo qualcosa di sostanziale in cambio a degli alleati con cui aveva curato preventivamente le relazioni.
Trump invece sta seguendo una strategia praticamente opposta: oltre al sostegno al debito, lui pretende anche il riequilibrio della bilancia commerciale dei beni senza considerare quella dei servizi, e in cambio invece di offrire sicurezza aggiuntiva intende ridurre quella esistente. Insomma, mentre Reagan utilizzava bastone e carota nel momento di massima forza dell’America, Trump pretende di usare solo il bastone in un momento di debolezza, e la carota che offre è costituita solo dall’eventuale riduzione dell’uso del bastone.
La strategia dell’attuale Amministrazione riflette il carattere e l’attitudine affaristica di Trump: quella di un tycoon immobiliare, abituato a bullizzare gli avversari fino a sottometterli e allo stesso tempo ad allisciare i clienti fino all’esagerazione. Di qui anche gli eccessi verbali, dove non esiste via di mezzo fra “wonderful” e “disgusting”, e si passa velocemente dall’essere “amazing” al “nasty” a seconda di come ci si interfaccia con lui. Questo atteggiamento ha un suo perché quando esercitato nell’ambito della finanza, e può servire tanto ad accelerare i tempi della trattativa quanto a mascherare eventuali debolezze; però esiste una ragione per cui non viene impiegato quasi mai in diplomazia, specialmente trattando con le democrazie. I governi eletti infatti, a differenza delle autocrazie che badano al sodo, devono curare anche le apparenze nei confronti del proprio elettorato, e se questo coltiva dei principi etici una democrazia abbastanza sicura di sé può facilmente impuntarsi di fronte ad un eccesso di arroganza.
Il fulcro del discorso, quindi, diventa se e quanto l’America di Trump sia effettivamente in grado di intimidire i suoi interlocutori al punto da costringerli ad accettare accordi sfavorevoli oltre che iniqui.
Di nuovo, se l’offensiva daziaria fosse stata sferrata in maniera mirata, rivolgendosi ad un interlocutore per volta, sarebbe stato più semplice; ma Trump per qualche sua ragione ancora non ben chiara ha avuto fretta, e adesso il mondo intero sa di essere nel mirino; il rischio quindi è che i bersagli più resilienti si accordino fra loro per resistere alle pressioni.
Mentre i Paesi economicamente più deboli e isolati, oppure le piccole autocrazie emergenti possono essere tentate di negoziare al più presto un accordo che magari vada a pesare solamente sugli strati più bassi della popolazione salvaguardando le élite e possibilmente offrendo un ritorno di qualche genere – come il passaggio al mercato americano delle armi ora che quello russo, più economico ma anche inferiore, si è praticamente dissolto –le maggiori potenze economiche sono in una posizione politica e soprattutto economica ben diversa dall’Europa e dal Giappone degli anni ’80 rispetto ad un’America che a sua volta non è più quella di Reagan.
Già il Canada ha reagito in maniera molto più energica di quanto previsto, la Cina ha immediatamente replicato i dazi, e l’Europa si sta preparando per una risposta muscolare a sua volta, nella consapevolezza che se si deve andare a trattare con un interlocutore abituato a giocare pesante conviene farlo da una posizione di forza.
Così come Putin, anche Trump ama credere fino in fondo alla sua stessa narrativa: lui crede veramente che i canadesi e i groenlandesi desiderino diventare americani, così come crede che le Nazioni europee sgomiteranno per trattare separatamente con lui, e che l’Europa non sia capace di tirarsi su le braghe e prendere in mano la propria stessa difesa utilizzando le proprie armi invece di comprare quelle americane.
Canada e Groenlandia hanno già chiaramente dimostrato il contrario, e l’Europa si accinge a fare altrettanto: non perché presa da improvviso coraggio, quanto per una serie di obblighi strutturali che vanno dall’atteggiamento dell’elettorato ai vincoli del mercato unico, per arrivare alla pura e semplice convenienza economica di difendere la propria economia a medio e lungo termine.
In definitiva, la mia netta sensazione è che Trump abbia sopravvalutato la propria visione del mondo e la capacità negoziale dell’America che si trova a guidare in questo preciso momento storico. La sua visione sostanzialmente primitiva del mondo, inteso come una giungla con una catena alimentare di cui l’America sarebbe al vertice e dove non esisterebbero alleanze permanenti fra Nazioni amiche ma solo accordi temporanei fra partner differenti fra loro, gli impedisce di capire la natura dei vincoli esistenti non solo in ambito NATO (che lui ha il potere di cambiare), ma anche di quelli intercorrenti fra i suoi stessi alleati e soprattutto all’interno dell’Unione Europea. E come tutti i primitivi tende a detestare ciò che non capisce.
ORIO GIORGIO STIRPE