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Ora che il clamore si sta finalmente smorzando sulla crisi siriana, proviamo a tornare brevemente sulla sua clamorosa conclusione, e vediamo se questa può insegnarci qualcosa di utile per comprendere meglio la situazione in Ucraina, e in particolare su come questa potrebbe evolvere in un futuro più o meno prossimo.

 

Chi ha avuto modo di seguire i miei precedenti articoli avrà notato come in passato io abbia più volte fatto riferimento al “collasso” di un esercito a seguito di una serie di eventi sfavorevoli durante il conflitto, e a come questo possa in particolare essere indotto da un’azione avversaria orientata appunto “al nemico”.

Mi rendo perfettamente conto di come molti, leggendo questi riferimenti ed essendo solo superficialmente edotti di argomenti militari, possano essere rimasti nel dubbio circa cosa questo termine – “collasso” – volesse effettivamente indicare.

Bene: grazie agli eventi siriani, ora tutti hanno potuto vedere in cosa consista il collasso di un esercito, e come questo generi a cascata il dissolvimento del Regime politico che era destinato a proteggere e quindi la conclusione militare del conflitto in cui era coinvolto.

L’”Esercito Arabo Siriano” del regime di Bashar Assad è “collassato”.

 

Troppo spesso l’opinione pubblica che osserva un conflitto attraverso i media che glie lo rappresentano in versione virtuale tende a convincersi che alla base della capacità militare di un esercito ci siano le armi di cui è dotato.

Questo concetto non potrebbe essere più fuorviante.

Se fosse vero, l’Arabia Saudita sarebbe una superpotenza militare, Gheddafi avrebbe conquistato l’intero continente africano e Israele sarebbe scomparso entro il 1948.

Ma NON è vero.

Le armi di cui è dotato un esercito rappresentano parte del suo POTENZIALE, così come il numero dei suoi soldati. La combinazione ergonomica di armi e soldati, opportunamente supportata da un sistema-Paese capace di generare una volontà comune di impiegare tale potenziale complessivo, consente di trasformarlo in una CAPACITA’ effettiva.

 

Fin dall’inizio del conflitto civile, l’esercito del Regime di Assad disponeva di armamenti infinitamente superiori rispetto alla variegata confederazione di “ribelli” che aveva di fronte; disponeva anche di una risoluta volontà e motivazione al combattimento da parte della componente – seppur minoritaria – della popolazione su cui si fondava il potere del regime stesso: l’etnia alawita e i membri del partito Baath.

I “ribelli”, rappresentanti della maggioranza sunnita e delle altre minoranze non allineate al Regime ma neppure unite fra loro, disponevano di uomini ed erano motivate a loro volta, ma difettavano di armi come di coesione.

In queste condizioni le due parti, dotate di potenziali differenti ma entrambe sorrette da volontà decise, si sono affrontate con accanimento senza che una riuscisse a prevalere sufficientemente a lungo da porre fine al conflitto: solo in seguito al pesante intervento di potenze esterne, questo è stato solamente “congelato” sulla base della mediazione delle convenienze di tali forze esterne.

 

Alla fine di novembre 2024 però, è emerso improvvisamente che i valori dell’equazione dove compaiono i famosi fattori relativi a personale, armi e volontà, erano cambiati durante il periodo di congelamento del conflitto.

In particolare, a seguito del disimpegno di alcune delle potenze esterne che avevano congelato il conflitto, era venuto a modificarsi il più volatile fra i fattori dell’equazione: quello della volontà, in particolare dei miliziani del Regime.

La variazione nel tempo dei fattori avviene infatti in maniera differente: a meno di eventi traumatici come battaglie decisive o “cigni neri”, il numero dei soldati rimane più o meno stabile, e le armi si deteriorano lentamente e altrettanto lentamente vengono rimpiazzate; la volontà invece si può accrescere o può evaporare in maniera imprevedibile e irrazionale, soprattutto laddove il personale militare è scarsamente addestrato.

 

Di nuovo, per chi non ha esperienza diretta di vita militare e/o di situazioni di conflitto armato, è difficile afferrare il concetto, ma il morale di un esercito in guerra è una cosa non solo fondamentale, ma anche estremamente delicata; come tutte i fattori non quantificabili in maniera digitale, è però anche oggigiorno trascurata a vantaggio della conta dei sistemi d’arma o dei flussi economici.

Cerchiamo di capirci: la guerra è combattuta da soldati, e i soldati sono persone. Per quanto addestrate, comandate ed equipaggiate nel migliore dei modi, queste persone per trasformare il loro potenziale bellico in effettiva capacità di combattimento devono essere disposte al SERVIZIO. Servire significa trasformare la potenzialità in capacità accettando un rischio fisico elevato in nome di una causa in cui si crede.

 

Il concetto appare ancora troppo astratto?

Proviamo così: il soldato in guerra per combattere davvero deve essere convinto che rifiutarsi di farlo porterebbe a conseguenze peggiori che non accettare di impegnarsi. Se preferite, il valore che attribuisce alla propria sicurezza fisica non deve essere superiore a quello che attribuisce a ciò che sente di dover proteggere.

Per elevare il valore della motivazione al combattimento, oltre all’addestramento, si opera sulla valorizzazione degli affetti ideali: la casa, la famiglia, la religione di appartenenza, la civiltà e la patria. Oppure si può diminuire il valore attribuito alla propria esistenza: se la vita – propria o altrui – è percepita dal soldato come squallida e insignificante, si sarà disposti a sacrificarla con maggiore facilità e in nome di valor da proteggere meno elevati.

Il secondo caso è ovviamente più frequente nei conflitti in Paesi degradati, ed è alla base del concetto di reclutare nei Paesi evoluti fra le classi sociali meno abbienti.

Insomma: quando un soldato si rende conto che se smette di combattere le cose per lui e per ciò che gli sta a cuore invece di peggiorare miglioreranno, semplicemente smetterà di servire.

Per combattere, occorre che ne valga la pena.

 

In Siria, quando improvvisamente i ribelli hanno dimostrato la capacità di combattere con efficacia e quindi il costo del servizio per i soldati del Regime si è improvvisamente rivelato elevato, questi sono giunti alla conclusione che evitare la caduta del Regime non fosse poi un qualcosa per cui valesse la pena di rischiare la vita.

Il fatto poi che i ribelli si dimostrassero disposti ad una relativa clemenza e che una loro vittoria portasse a cambiamenti tutto sommato meno traumatici di quanto inizialmente creduto, ha ulteriormente ridotto il valore della causa per cui combattere.

Il valore attribuito alla sicurezza Regime si è rivelato inferiore a quello della loro sicurezza fisica, e la motivazione al servizio è crollata di schianto. Questo è apparso così evidente da manifestarsi più o meno allo stesso tempo a tutti i livelli della catena di comando, e così l’intera macchina militare ha semplicemente smesso di funzionare, e ha perso la coesione interna. Se ci fosse stato un posto fisico dove ritirarsi lo avrebbe fatto; in mancanza di tale posto, si è semplicemente dissolto.

 

***

 

Cosa ci insegna questo a livello del conflitto ucraino?

In Ucraina si affrontano due eserciti che traggono la loro motivazione da elementi simili ma in maniera differente.

L’esercito ucraino combatte per i valori tradizionali di difesa della Patria invasa, ed è altamente improbabile che la motivazione possa annullarsi: è invece possibile che vengano a mancare gli uomini (improbabile) o le armi che consentono ai soldati stessi di combattere (e questo come ben sappiamo dipende da noi).

L’esercito russo combatte per un insieme di fattori a noi abbastanza estranei, quali una propaganda invasiva, un indottrinamento sociale di stile sovietico, una certa fede messianica nel Regime, e soprattutto uno scarso valore attribuito alla vita in generale e alla propria in particolare (anche e soprattutto a causa delle condizioni di vita disagiate della gran parte del personale militare arruolato).

L’Ucraina opera sul campo “orientata al nemico” non perché creda di poter distruggerne il potenziale militare complessivo, ma perché l’insieme dei valori difesi dal soldato russo è assai più precario di quelli difesi dal soldato ucraino: la difesa di un Regime motiva al servizio assai meno della difesa della Patria.

E a chi non capisce questo fatto elementare non ho altro da dire.

 

Se si riuscirà a portare i militari russi a dubitare che anche per loro valga la pena di continuare a combattere, l’esercito russo collasserà. Per far questo occorre che il rischio di affrontare la battaglia superi quello di smettere di farlo (numero di perdite a fronte dei guadagni territoriali, difficoltà logistiche, fiducia nei comandanti, affidabilità del Regime, minaccia agli affetti familiari…).

Non è affatto detto che ci si riesca.

Ma per gli ucraini vale la pena di continuare a provarci.

 

 

ORIO GIORGIO STIRPE