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Discorrendo sui social media e leggendo gli articoli correlati al conflitto in corso in Ucraina, mi sono reso conto che la maggior parte delle persone che si interessano del problema hanno una visione piuttosto rigida e “binaria” della situazione bellica: guerra o pace; conflitto in corso, o conflitto concluso con un accordo.

Non è così.

Non vorrei aggiungere nuova linfa alla moda attuale di spiegare tutto con “è complicato”, ma in questo caso è veramente così. Nonostante le cose siano cambiate in maniera sostanziale a partire dal 1945, si ha ancora la tentazione di credere che i conflitti inizino con una formale dichiarazione di guerra e si concludano con un accordo di pace: si legge ancora così su videogiochi e simulazioni su YouTube.

In realtà questa materia è completamente cambiata con la conclusione della II Guerra mondiale, l’avvento delle armi nucleari e soprattutto la costituzione delle Nazioni Unite e di tutto il corredo normativo e legislativo che ne è seguito.

Ora, non è che io voglia attribuire all’ONU un potere che assolutamente non ha: semplicemente l’organizzazione (inefficiente, burocratizzata, debole e perfino corrotta) è stata volutamente posta al centro di un sistema di valori e di regole che hanno alterato profondamente la natura formale della guerra; questo perché il modo in cui la guerra stessa viene percepita dalla maggior parte dell’umanità è profondamente cambiato fra il 1940 e il 1945.

Durante quegli anni terribili, si è passati dal concetto relativamente accettato di “guerra igiene del mondo” a quello di guerra “da ripudiare”.

 

Dal punto di vista pratico e sostanziale, si tratta di due concetti entrambi ridicoli: la guerra è tutt’altro che igienica e rappresenta una calamità, ma “ripudiarla” è un’idea infantile come quella di proteggersi dalla paura tirandosi sopra la testa un lenzuolo.

Il punto è che a partire dal 1945 la guerra che fino a quel momento era stata considerata un fenomeno relativamente normale della vita, è diventata sostanzialmente “immorale”; non per questo però è scomparsa, perché rimane purtroppo un evento naturale delle relazioni umane. Anche senza contare le innumerevoli guerre civili, rivoluzioni, insurrezioni e colpi di stato che ricadono normalmente sotto la definizione di “conflitti asimmetrici” o “non convenzionali”, abbiamo anche avuto numerose guerre “tradizionali”, combattute fra eserciti regolari di Nazioni sovrane in base alle direttive politiche dei rispettivi governi.

Nessuna di queste guerre è stata “dichiarata”, e pochissime si sono concluse con “trattati di pace”.

 

Lo stesso vale per la guerra in Ucraina: nessuno l’ha dichiarata, e difficilmente si concluderà con un esaustivo “trattato di pace”. Eppure di guerra – convenzionale e ad alta intensità – si tratta, e come ogni altra guerra avrà termine. Solo che l’ipocrisia con cui si è voluta ammantare questa triste realtà come per nasconderla o addirittura esorcizzarla, fa sì che quelle che erano le sue chiare fasi di inizio e conclusione siano mutate in cambiamenti graduali, lenti, sfumati e imprevedibili.

 

Il tentativo di scrutare nella nebbia e di immaginare la conclusione auspicabile del conflitto in Ucraina è viziato dalla speranza quantomeno ingenua in una “pace” risolutiva e definitiva.

In realtà, ben difficilmente questo è un traguardo probabile, e ancor meno vicino.

La Russia di Putin ha investito troppo nella sua scommessa su una vittoria rapida e soprattutto completa per poter accettare formalmente qualcosa che non gli assomigli abbastanza. L’Ucraina ha subito lutti e devastazioni troppo estesi per ammettere una sconfitta umiliante solo perché il mondo anela il ritorno di una “pace” che odori almeno di normalità. L’Occidente stesso non può tollerare una violazione così plateale di quella che ormai da ottanta anni è una prassi consolidata e che si chiama “inviolabilità delle frontiere”, creata appunto per prevenire conflitti volti a cambiare i confini fra Stati con la forza delle armi… Ma non è neppure disposto a rischiare una guerra nucleare per impedirla.

In questa situazione impossibile, nessuno può vincere veramente, e nessuno può permettersi di perdere; quindi il conflitto rischia di proseguire indefinitamente, anche nell’impossibilità di concluderlo militarmente. Questo, almeno finché non muteranno almeno alcune delle condizioni iniziali che lo hanno determinato.

 

Il fatto però che il conflitto sia destinato a durare non significa che la guerra guerreggiata non possa arrestarsi, anche perché entrambi i contendenti sul campo sono esausti.

L’interruzione delle ostilità, senza conclusione di una pace formale, si chiama “armistizio”; può essere o meno formalizzato, e può avere durata variabile: da poche ore per consentire ad esempio uno scambio di ambascerie o di prigionieri, a molti anni, fino a divenire indefinito. Un ottimo esempio di armistizio senza fine è quello in Corea, che dura ininterrottamente dal 1953.

Varianti differenti dall’armistizio classico sono i cosiddetti “cessate-il-fuoco”, dove un accordo temporaneo è raggiunto in seguito ai buoni uffici di un mediatore, e i “conflitti bloccati”, in cui semplicemente si smette di combattere senza un preciso accordo, quasi in attesa di ricominciare appena pronti… Ma senza mai aprire nuovamente il fuoco per davvero.

 

È molto più verosimile, e addirittura probabile, che almeno in un primo tempo in Ucraina si raggiunga una sospensione delle ostilità caratterizzata da una di queste ultime soluzioni ibride, che non rappresentano in alcun modo una “pace”, ma perlomeno consentono di arrestare lo spargimento di sangue e avviare da una parte la ricostruzione economica, e dall’altra cercare di avviare un dialogo destinato magari a raggiungere veramente un trattato di pace… O più probabilmente a guadagnare tempo in attesa che le condizioni che hanno generato il conflitto cambino o vengano meno del tutto.

 

Quello di cui si discute adesso, non sono le condizioni per un “trattato di pace”: sono quelle per un armistizio. Quando l’Ucraina richiede un ritorno alle posizioni del 24 febbraio, e la Russia afferma di voler “integrare” Kherson e la costa ucraina, si parla di questo, non della “pace”; e neppure su questo ci può essere al momento un accordo, per le ragioni citate precedentemente. Ma di nuovo, questo non vuol dire che non si possa comunque cessare il fuoco: soprattutto in quanto entrambi i contendenti sono fisicamente esausti.

 

Credo che in Occidente, a parte i minions di Putin che incredibilmente giustificano ancora le sue decisioni aberranti in base a supposte intenzioni scellerate dell’Ucraina stessa o della NATO, direi che si sia tutti d’accordo che l’Ucraina non debba rinunciare alla sua integrità territoriale; allo stesso tempo credo che pochi ritengano accettabile pagare il prezzo di una riconquista militare di ciò che la Russia ha occupato finora (inclusi Donbass e Crimea). Prezzo che oltre al rischio di escalation nucleare, peraltro improbabile, include quello di una destabilizzazione totale della Russia, che a sua volta risulterebbe devastante per l’equilibrio economico e per la sicurezza globale.

 

Se quindi la vittoria di una parte è inaccettabile, e d’altra parte nessuna parte può ammettere la sconfitta, la fine formale del conflitto nelle condizioni presenti è impossibile. Occorre quindi puntare su una sua semplice sospensione, che consenta da una parte di interrompere i combattimenti e dall’altra di lasciare che le condizioni del conflitto decantino spontaneamente con il tempo… Che potrà anche durare anni.

L’orso Vladimiro non può essere abbattuto. Ma può essere lasciato morire di fame.

 

Orio Giorgio Stirpe