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La battaglia del Donbass non è finita… Non ancora.

 

I russi hanno preso un bel diretto in piena faccia sabato, di quelli che possono decidere un match di boxe; lo hanno preso a Severodonetsk, il punto focale della loro “offensiva finale” nel Donbass dove avevano concentrato il meglio di ciò che restava loro da destinare al combattimento negli abitati, che chiaramente non è l’ambiente più idoneo all’impiego delle loro forze regolari.

Constatata la scarsa predisposizione dei militari professionisti a combattere casa per casa, anche a causa del loro addestramento specifico al combattimento a bordo dei mezzi corazzati (che in città sono ciechi), i generali russi hanno deciso di impiegare – come già a Mariupol – i fedeli miliziani ceceni e i mercenari del Gruppo Wagner, lautamente pagati e senza troppo pelo sullo stomaco. Purtroppo per loro però, a differenza di Mariupol, Severodonetsk non era circondata e doveva essere investita frontalmente; questo non solo significa un fronte di assalto comparativamente più ristretto dove quindi è meno facile far valere la superiorità numerica, ma anche che l’avversario ha modo di ruotare le proprie forze oltre che di rifornirle regolarmente; inoltre l’artiglieria non può sparare a piacimento da qualsiasi direzione, ma è vincolata a posizioni precise, che possono essere controbattute dal fuoco nemico, che ora dispone di artiglierie a braccio più lungo (americane, francesi, e anche italiane).

In questa situazione, i miliziani lanciati all’assalto hanno subito perdite sempre più gravi mentre si inoltravano nel centro dell’abitato, e alla fine hanno perduto lo slancio a dispetto del morale superiore a quello dei commilitoni dell’esercito regolare. Quando forze fresche ucraine tenute in riserva hanno contrattaccato, i miliziani hanno potuto contare come rincalzi solo sui miliziani di riserva del Donbass, reclutati quasi a forza fra i russofoni della regione e scarsamente addestrati. Il risultato è stato un ripiegamento che ha lasciato metà centro abitato in mano ucraina.

Ma soprattutto, in mancanza di un secondo scaglione di miliziani agguerriti, l’offensiva sulla città appare abortita: proprio come l’attacco di un pugile che si è appena preso un diretto sul grugno.

 

Ancora una volta, il problema dei russi appare essere la mancanza di motivazione dei soldati professionisti a rischiare la pelle in un conflitto poco sentito; i ceceni fedeli a Mosca non sono poi così tanti (ce ne sono molti di più che odiano il Cremlino), i mercenari del Wagner sono tanti per una compagnia privata ma sono pochissimi rapportati alla scala della campagna in atto, e i miliziani del Donbass oltre a non essere molti neppure loro, hanno un livello di addestramento e di motivazione per lo più decisamente basso.

Insomma: l’assalto a Severodonetsk appare in stallo: per ora continuano solo i bombardamenti. Però, come detto, la battaglia del Donbass non è finita.

 

Mentre i ceceni e gli altri miliziani investivano Severodonetsk (attirando anche molte riserve ucraine per difendere la città), le forze regolari russe continuavano il loro doloroso processo di raggruppamento, e adesso potrebbero essere pronti a riprendere l’offensiva dalla regione di Izyum in direzione di Slaviansk, cercando una volta di più di passare per le paludi. Se è così, questo potrebbe essere davvero l’ultimo anelito dell’offensiva, che rischia di trasformare un’altra città in un cumulo di macerie nel tentativo – ormai quasi impossibile – di raggiungere Kramatorsk.

 

Slaviansk è molto più difficile da raggiungere di Severodonesk, in quanto fra la città e i russi ci sono sia le paludi che il fiume: un’area che va sotto il nome di Parco Nazionale di Sviati Hory (chi è interessato a capire che tipo di terreno sia, vada a dare un’occhiata su Google maps).

Più promettente appare il settore immediatamente a ovest di Izyum, l’unico dove i russi sembrerebbero aver creato una testa di ponte a ovest del fiume (sempre il Donec Settentrionale): qui i russi potrebbero provare a spingersi a sud, aggirando Slaviansk da ovest con una manovra avvolgente dove le loro superiori forze corazzate e meccanizzate potrebbero far valere la loro potenza di fuoco.

 

Il problema in questo caso è che manca un obiettivo, o un perno di manovra, abbastanza ravvicinato: una manovra simile richiederebbe una spinta molto in profondità, di una magnitudine che finora i russi non hanno dimostrato di saper sostenere spingendo in avanti abbastanza in fretta le artiglierie e soprattutto il supporto logistico. Si tratterebbe infatti di una manovra di almeno 120 chilometri di profondità (in linea d’aria) per tagliare fuori Kramatorsk e il Donbass ucraino raggiungendo Donetsk da nord.

Francamente nelle condizioni attuali non credo che l’esercito russo sia in grado di condurre a termine con successo una manovra simile… Che però sembra essere l’unico modo di vincere per manovra la battaglia del Donbass.

Rimane ovviamente l’altro modo, apparentemente preferito dai generali russi: vincerla per attrito, infliggendo e accettando perdite insostenibili e distruggendo tutto davanti a sé. Ma anche quello non funziona: lo abbiamo visto a Severodonetsk.

 

Viste le opzioni tattiche, torniamo quindi ai generali russi.

Non è chiaro se Dvornikov rientri o meno nell’ultimo elenco di generali russi silurati (o meglio, “avvicendati”) da Putin. Quel che è certo è che delle circa dieci armate russe che hanno lanciato l’invasione, solo un paio sono ancora guidate dai comandanti con cui hanno iniziato il conflitto soli tre mesi fa: gli altri sono stati tolti di mezzo o dagli ucraini o da Putin.

Si tratta di un tasso di attrito fra ufficiali d’alto rango che non ha riscontro nella storia recente. Questo, naturalmente, fa riflettere.

 

Il sistema di potere di un’autocrazia non ereditaria come quella russa è tale per cui l’autocrate al potere ha tutte le ragioni di temere di essere rovesciato da un altro uomo di potere più forte e ambizioso di lui. Pertanto il leader in questione tende inevitabilmente ad eliminare in anticipo i potenziali rivali, che di solito corrispondono alle persone più capaci; inevitabilmente, così facendo si circonda di personale magari anche fedele, ma poco competente.

Non starò ad analizzare l’impatto che ciò può avere sull’intero apparato di governo, ma mi limito ad osservare nella mia area di competenza che laddove questo processo si applica ai militari, implica una gerarchia intera di generali incapaci di gestire una guerra, specialmente se d’aggressione e poco sentita dai soldati sul campo.

 

Ci sono sempre più voci ed indiscrezioni sulle intercettazioni telefoniche dei militari russi che parlano con casa o fra di loro con cellulari ucraini rubati; naturalmente occorre fare una tara a causa degli ovvi intenti propagandistici delle autorità che le rilasciano, ma il fatto è che il loro contenuto coincide esattamente con quello che penso direi io se fossi al loro posto: in fondo dal mio punto di vista si tratta di colleghi, e credo di poter immaginare le loro opinioni.

Lamentele ed anche insulti sprezzanti ai superiori fino alle gerarchie più alte si sprecano; i comandanti – compreso Dvornikov – sono considerati dei macellai incompetenti, e il più incompetente di tutti sembra sia considerato proprio Shoygu, il ministro della Difesa, fedelissimo di Putin e perenne freno alle idee innovative di Gerasimov – che invece non appare essere bersaglio di critiche pur essendo il Capo di Stato Maggiore.

Putin stesso, è ripetutamente indicato come ormai “alla fine”. Non è insultato però: per lui c’è ancora rispetto.

Perché la sua strategia ha funzionato perfettamente: i militari disprezzano i propri superiori molto più di lui, e questo rende un colpo di stato militare impossibile.

 

L’orso Vladimiro difficilmente sarà rovesciato da un golpe, perché i suoi generali sono troppo incompetenti per organizzarne uno.

Solo che i generali incompetenti difficilmente vincono le guerre.

 

Orio Giorgio Stirpe