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E venne il quattrocentesimo giorno di guerra.

Ricordo quando qualcuno dei pochi che ancora li contavano auspicò che il conflitto si fermasse a quota duecento: siamo al doppio.

Giunti a questo punto, qual è la prospettiva?

Coloro che invece di limitarsi ad affrontare i titoli roboanti e del tutto fuorvianti dei media si impegnano almeno ogni tanto a confrontarsi con una carta geografica si saranno resi conto che ormai da molti mesi il fronte non presenta variazioni degne di rilievo. Occorre infatti andare sulle mappe topografiche per riuscire a leggere le cosiddette “avanzate” dei contendenti, e quindi per rendersi conto che – almeno da ottobre e fino adesso – dei cosiddetti “sfondamenti” annunciati di continuo non v’è traccia: l’ultima variazione significativa del fronte risale all’evacuazione della testa di ponte russa a ovest del Dnipro e alla liberazione di Kherson.

Da allora si è sparso moltissimo sangue, e assolutamente per niente.

Questo, perché al momento gli opposti potenziali militari, a dispetto delle differenze esistenti fra loro, sono sostanzialmente equivalenti: come abbiamo visto negli ultimi due articoli, le pur notevoli differenze qualitative e quantitative fra gli eserciti contrapposti si bilanciano fra loro e nessuno dei due riesce a prevalere.

Ma allora, non sarebbe finalmente il momento di avviare trattative di pace?

No: purtroppo no.

 

Si era già raggiunto uno stallo durante l’estate: completato il ripiegamento da Kyiv e raggruppate le forze, i russi avevano consumato la loro offensiva nel Donbas riuscendo infine a catturare la cittadina di Severodonetsk a prezzo di perdite atroci, e la loro offensiva era giunta al culmine; gli ucraini erano esausti, e gli aiuti occidentali avevano appena cominciato ad arrivare poco per volta, mentre le Brigate in mobilitazione non erano ancora entrate in linea. Una trattativa basata sul ritorno alle posizioni del 24 febbraio avrebbe ancora potuto essere ingaggiata.

Ma Putin preferì rilanciare: l’esercito russo proseguì i suoi sterili assalti nel Donbas cannibalizzando i suoi battaglioni sparsi lungo il resto del fronte, incaponendosi in una caparbia ricerca di sfondamento che non poteva in alcun modo avere successo, e il Regime avviò le procedure per l’annessione dei territori occupati, uccidendo le prospettive diplomatiche che si erano create sul campo.

Il risultato fu un tragico indebolimento delle Unità di manovra russe, e gli ucraini ne approfittarono: misero in linea le nuove Brigate leggere, raggrupparono quelle veterane più pesanti, e lanciarono il contrattacco di Izyum, impensabile fino a poche settimane prima; le forze russe nel settore, svuotare dalla folle offensiva dei mesi precedenti nel Donbas, cedettero di schianto e gli ucraini avanzarono per quanto le loro scarne capacità logistiche concedevano loro… Acquisendo una consapevolezza nelle loro forze che prima non avevano.

 

A quel punto Putin ha dovuto rilanciare ancora, avviando la mobilitazione parziale per cercare di rinsanguare le sue forze ormai anemizzate e assurdamente in inferiorità numerica. Da quel momento è stata una corsa a due per ricostituire ed aumentare i rispettivi potenziali: gli ucraini proseguendo la loro lenta mobilitazione sistematica e assorbendo ogni aiuto che poteva arrivare da Occidente, e i russi lanciando la più caotica e disordinata mobilitazione di tutti i tempi, destinata a trasformare un esercito professionale in uno di milizie di ogni tipo, enorme ma mal strutturato.

Questa corsa alle armi ha portato ad un equilibrio, ma si tratta di un equilibrio dinamico: i due potenziali variano continuamente, a causa della loro crescita costante da un lato e dell’attrito bruciante sul fronte dall’altro.

A causa delle loro dinamiche politiche, i russi hanno scelto di consumare rapidamente il proprio potenziale in un’offensiva frontale ininterrotta sull’unico settore del fronte che riescono a rifornire adeguatamente, fidando di riuscire alla fine a romperlo e nel contempo di poter assorbire le perdite grazie all’elevato numero di rincalzi reso disponibile dalla loro mobilitazione.

Di fronte a loro, gli ucraini hanno scelto di sostenere frontalmente l’assalto accettando l’attrito reciproco, cercando di assorbirlo con le loro formazioni leggere e sfruttando il tempo guadagnato aumentando il potenziale delle proprie Unità mobili tenute in riserva.

 

Insomma: noi assistiamo ad uno stallo apparente. In realtà, si tratta di una autentica sfida a chi amministra meglio il proprio potenziale in una gara di attrito simile ad un braccio di ferro: i contendenti sembrano immobili, ma in realtà si stanno consumando a vicenda, e prima o poi uno dei due crollerà di schianto.

Entrambi si sentono obbligati a vincere, e credono di potervi riuscire, augurandosi che il proprio potenziale continui a crescere e che la sua crescita compensi l’attrito.

Questa è la realtà del conflitto: tutto il resto sono fantasie di chi assiste da fuori.

 

Chi assiste da fuori, naturalmente, non demorde nelle proprie speranze o nelle proprie illusioni. Nei due Paesi belligeranti, sebbene la fatica cominci a farsi sentire e appaiano le prime crepe, la gran parte dell’opinione pubblica mantiene sostanzialmente un sostegno compatto per il proprio Governo e le proprie Forze Armate: non si intravede ancora alcun crollo del fronte interno.

In Occidente il sostegno per l’Ucraina appare sostanzialmente e sorprendentemente compatto: a meno della posizione diplomaticamente equidistante della Turchia (la cui appartenenza all’Occidente appare quantomeno problematica) e con l’esclusione della sola (e del tutto irrilevante) Ungheria bloccata da problemi di politica interna, i Governi appaiono uniti e coerenti nella politica di supporto a Kyiv, e gli aiuti proseguono in maniera congrua alle necessità ucraine e alle possibilità degli alleati.

In Italia questo sostegno si riflette nell’azione politica e militare, ma l’opinione pubblica ormai appare polarizzata.

Esistono da entrambe le parti i “tifosi” che scambiano la guerra per una partita di calcio, ci sono quelli che semplicemente odiano l’America e l’Europa a prescindere, oppure che vogliono la dissoluzione della Russia, ci sono gli estremisti politici che si collocano in ogni caso secondo le direttive di Partito, e naturalmente ci sono dietro le quinte gli agenti della propaganda russa che cercano di indirizzare il flusso dei prodotti della “fabbrica dei troll” di San Pietroburgo in modo da influenzare gli indecisi (da parte occidentale non esiste niente di simile visto che non c’è un’Autorità decisionale comune in grado di fare altrettanto, ma esiste una pletora di attori minori che cercano maldestramente di provarci). Di questi gruppi è inutile discutere, perché non ragionano e sono acciecati dall’irrazionalità dei propri impulsi.

 

Interessa invece parlare di quelli che sono i due opposti campi che ancora ragionano in modo razionale: coloro che privilegiano le ragioni del sostegno alla vittoria dell’Ucraina, a costo del proseguimento del conflitto, e coloro che privilegiano quelle di una cessazione dei combattimenti a costo di rinunciare almeno in parte ai principi in nome dei quali quel sostegno si basa.

Andando a scavare, si tratta di una tipica contrapposizione fra valori fondamentali, tutti dotati di pari dignità: da una parte libertà e giustizia; dall’altra pace e stabilità.

 

Il problema secondo me risiede però nella definizione di “pace”.

La pace intesa come “assenza di guerra” è un’illusione: è semplicemente un’attesa snervante per il prossimo colpo di cannone.

La “pace” di cui tanto si parla, come quella offerta dal cosiddetto “piano cinese”, non è affatto una pace: è un armistizio. Un modo di arrestare TEMPORANEAMENTE i combattimenti senza risolvere i problemi che hanno condotto al conflitto. È la soluzione tipica delle guerre limitate, dove entrambi i contendenti sono sostenuti dall’esterno, e lasciati a sé stessi non potrebbero continuare: in quel caso l’armistizio è garantito dalle Potenze che li sponsorizzano, ed è l’accordo fra loro a consentire la tenuta dell’armistizio. Nel caso attuale l’Occidente potrebbe sospendere il sostegno all’Ucraina, ma la Russia sostiene sé stessa, ed essendo lei l’aggressore non avrebbe motivo di mantenere indefinitamente un regime di cessate il fuoco una volta ricostituito il proprio potenziale ad un livello tale da consentire una ripresa dello sforzo offensivo.

 

Purtroppo la pressione per la “pace ad ogni costo” è sostenuta dalla convinzione costantemente alimentata dal luogo comune secondo cui “la Russia non può perdere”. Un luogo comune dietro al quale in ultima analisi la razionalità cede il passo  e si riscopre l’atavica paura della “bomba”.

Già: perché alla fine, anche discutendo con il più onesto e convinto dei sostenitori della pace al di sopra della giustizia, si arriva sempre lì. “Se messo alle strette, Putin lancerà la bomba”. Una paura irrazionale, atavica, quasi infantile, ma purtroppo reale; dettata dalla disinformazione, dall’abitudine e dai luoghi comuni, che purtroppo si riscontra a questi livelli solo in Italia, forse a causa della leggendaria emotività e del romanticismo tipici della nostra gente. Una paura che – chissà perché? – non si avverte in Scandinavia, pur molto più vicina dell’Italia alla Russia, e che appare residuale in tutte le altre grandi Nazioni europee. Il nostro provincialismo, la mancanza di abitudine ad informarsi anche sui media esteri, la scarsa comprensione dell’inglese, la presunzione di capire meglio le cose da soli, accieca una vasta porzione dell’opinione pubblica italiana attraverso l’immagine abbagliante della “bomba”.

Il babau del nostro tempo…

Sono stanco di ripeterlo: la bomba esiste, certo; ma NON PUO’ essere impiegata per il Donbas. E chi la maneggia effettivamente, lo sa benissimo… Anche l’orso Vladimiro.

 

ORIO GIORGIO STIRPE