Terza (ed ultima) puntata dell’analisi sulla “soglia del dolore”: questa volta dedicata a noi. Noi, Occidente; e ovviamente, noi italiani.
Naturalmente noi da quella soglia siamo molto lontani: dovremmo però capire che questa distanza è un privilegio. Soprattutto in quanto non la conosciamo da molto, molto tempo: così, a braccio, direi dal periodo 1943-45.
Durante la Prima Guerra mondiale la raggiungemmo solo dopo diversi anni di guerra, nel 1917. E prima ancora… Mah?
Cos’è la “soglia del dolore”? Lo abbiamo detto nelle altre due puntate, ma siccome come non mi stanco di ripetere io sono un soldato e non uno psicologo, un sociologo o uno storico, sicuramente uso termini non appropriati per descrivere un fenomeno psicologico di massa che sovverte lo stato d’animo di un’intera Nazione in un momento critico.
Si tratta di quel momento in cui una persona, una fascia di popolazione o un’intera Nazione subiscono una dose di dolore, umiliazione o sofferenza fisica tale per cui la rabbia e la smania di giustizia travalicano il desiderio di evitare sofferenze ulteriori.
Succede quando una vittima si ribella al carnefice, quando un gruppo pacifico decide di puntare i piedi e difendersi, o quando una Nazione accetta di subire qualsiasi perdita pur di proteggere i suoi valori fondamentali.
Se si parla di una Nazione in particolare, è quando la popolazione si sente schierata in campo assieme al suo esercito e alle sue istituzioni: sente di mettere da parte ogni discordia, unire le forze e lottare fino alla vittoria. A qualunque costo.
In Italia accadde dopo Caporetto. Accadde di nuovo dopo l’8 Settembre. Nel primo caso dopo una disfatta militare, nel secondo dopo un’umiliazione nazionale.
Di solito quando accade si si stringe intorno ad una figura-chiave che unisce la nazione, nel bene o nel male. Nel 1917 fu il re. Nel 1943 non ci fu nessuno, e infatti fu un momento particolarmente difficile, da cui non emergemmo affatto uniti, ma divisi… Ma quella (come spesso capita a noi italiani per cause infinite) fu un’eccezione.
Accadde agli americani il 7 dicembre 1941, e ancora l’11 settembre 2001, ed in entrambi i casi si strinsero intorno al loro Presidente. Nel loro caso la potenza immane del loro Paese si scatenò sui nemici del momento, e furono dolori.
Accadde ai polacchi nel 1921, e a farne le spese fu l’apparentemente invincibile Armata Rossa, che a causa della sua brutalità provocò la stessa reazione anche nei finlandesi nel 1939 e con gli stessi risultati… Poi però la brutale aggressione nazista provocò la stessa reazione nelle genti sovietiche nel 1941, con il risultato di vedere la gente stringersi intorno ad un “catalizzatore” tanto improbabile come Stalin.
Gli ucraini si sono stretti intorno a Zelensky: un presidente piuttosto improbabile, che stava fra l’altro perdendo molta popolarità dopo essere stato eletto quasi a sorpresa proprio per abbassare la tensione con la Russia e combattere i problemi interni di una democrazia giovane e ancora incerta. Un presidente che però ha saputo reagire con dignità più di cittadino che di statista, e così facendo ha saputo unire la sua Nazione come in Europa non si vedeva da MOLTO tempo.
Quando questo fenomeno si verifica a livello nazionale in un Paese in guerra, accade che Governo, Forze Armate e popolazione si trovano a combattere unite, massimizzando il loro potenziale nazionale e quindi conseguentemente anche quello militare. Tutte le risorse umane e produttive sono poste al servizio della Nazione, la volontà è massimizzata dall’improvviso annullamento di ogni opposizione interna, e il Paese si trova a combattere una Guerra Totale.
Se l’avversario non ha saputo o potuto raggiungere un simile livello di unità e non è quindi in grado di combattere a sua volta una Guerra Totale ma solo un conflitto limitato, ben difficilmente riuscirà ad avere la meglio, a meno di disporre di una superiorità numerica o tecnologica del tutto asimmetrica… Evento estremamente raro, come nel caso degli USA contro i Talebani nel 2001.
Ma se il conflitto è simmetrico e solo una parte combatte una Guerra Totale, allora la parte che affronta il conflitto con uno stato d’animo solamente in parte impegnato per vincere, è destinato a combattere in condizioni di inferiorità: un’inferiorità sicuramente evidente fin dall’inizio in termini di motivazione al combattimento, probabilmente presto evidente anche in termini demografici, ed alla fine inevitabilmente anche in termini di equipaggiamento.
Questo in quanto la Nazione che combatte un conflitto limitato si impegna a livello istituzionale, e se dispone di Forze Armate professioniste anche con queste, ma la popolazione rimane distante, al sicuro e distaccata dal conflitto, che vedrà come una dimostrazione di iniziativa del proprio Governo, da seguire con favore, indifferenza, curiosità o sfavore a seconda delle inclinazioni individuali, ma non con partecipazione. Insomma, questa Nazione combatterà divisa, e quale che sia lo sforzo da parte del governo e dei suoi strumenti militari, il conflitto rimarrà per essa limitato.
L’Italia offrì una dimostrazione di infimo livello durante la II Guerra mondiale proprio in quanto si trattava di una guerra con caratteristiche totali, ma gli italiani la affrontarono con lo spirito di un conflitto limitato così come lo erano stati quello in Etiopia e in Spagna. In questo modo l’invasione della Grecia – che reagì con spirito assolutamente unitario – si trasformò in un incubo imbarazzante a dispetto del potenziale militare teoricamente superiore in termini demografici e di risorse di cui si disponeva.
La situazione cambiò nel ’43, quando ci si ritrovò invasi con una brutalità inaudita dal precedente alleato: solo allora la popolazione si sentì coinvolta in quella che si sentiva come una guerra di liberazione e non come una campagna di aggressione sentita come la famosa “politica perseguita con mezzi militari”.
La mancanza di una figura di riferimento (un Churchill o un De Gaulle) intorno alla cui leadership unire la Nazione impedì uno sfruttamento efficace delle energie così liberate, ma di fatto gli italiani cominciarono a combattere sempre meglio.
Potrebbe succedere di nuovo? L’Occidente è ancora capace di sforzi del genere?
In America lo abbiamo visto ancora vent’anni fa. Sicuramente potrebbe succedere ancora.
E in Europa? In Italia?
La vulgata che va per la maggiore, che ama definirsi realista e che io vedo come un po’ disfattista, dice di no.
Siamo troppo pigri, egoisti, divisi. Ci interessa più la sicurezza personale che non i Principi di base della Costituzione, e tendiamo a leggere nella Carta Fondamentale solo le parti che sostengono i nostri interessi egoistici. Siamo incapaci di sacrificio e il Servizio (alla Nazione) è visto come sudditanza e umiliazione. Chiunque ci aggredisse incontrerebbe una resistenza di facciata, seguita da un rapido accomodamento, dalla rinuncia ai Principi di cui sopra in nome di una coesistenza pacifica con l’aggressore (di cui si cercherebbe di condividere almeno in parte le ragioni), e si aspetterebbe che altri risolvessero il problema sopra la nostra testa.
Per questo non capiamo la determinazione degli ucraini a difendere a tutti i costi i loro principi, incuranti delle sofferenze. Perché noi, la “soglia del dolore” non la attraversiamo da molto tempo… Non l’abbiamo più dovuta attraversare da quando siamo membri della NATO.
Perché questa organizzazione tanto discussa e talora vilipesa, è esattamente ciò che ci ha tenuti al sicuro, ben lontani da qualsiasi “soglia del dolore”, e quindi dal fatidico test “flight or fight” che si presenta ad una Nazione aggredita.
Ma il fatto che un meccanismo di sicurezza non debba essere messo alla prova non significa che non funzioni. Io dico che se attivato, funzionerebbe. Funzionerebbe in Grecia, in Portogallo e in Danimarca; funzionerebbe in Francia e in Germania… E funzionerebbe anche in Italia: perché proprio come tutti gli altri europei abbiamo troppo da perdere se aggrediti da una Potenza autoritaria ed estranea ai nostri Principi.
Esattamente come ogni altra Nazione europea; esattamente come l’Ucraina.
L’orso Vladimiro ha commesso un errore imperdonabile.
Orio Giorgio Stirpe