Putin ha parlato alla Nazione.
Però lo ha fatto ad un orario abbastanza strano (alle otto del mattino la gente va al lavoro anche in Russia) e dopo una serie di rinvii abbastanza inusuali e un po’ sospetti.
Non starò a commentare il suo aspetto dimesso, la postura disagiata e l’inconsueto sguardo fisso sul “gobbo”: non sono un analista comportamentale e so che i minions mi aggredirebbero per il mio evidente tentativo di sminuire il loro eroe tramite “body shaming”. Però il contenuto del discorso è interessante.
La prima cosa che salta all’occhio rispetto a quanto anticipato dai media e dai social, anche russi, è che la montagna sembra aver partorito un topolino. Poca enfasi sui referendum, che tra l’altro si terranno (si terranno davvero?) in condizioni assurde, con parte del territorio controllato dagli ucraini e il resto sotto attacco militare; minacce relativamente contenute all’Occidente in caso di mancato riconoscimento dei referendum stessi… E soprattutto annuncio di una “mobilitazione parziale” senza dichiarazione di guerra che si riteneva dovesse accompagnarla per rendere legale la cosa.
Naturalmente Putin è un dittatore, e non ha veramente bisogno di rendere legali i suoi ordini: li emana e basta. D’altra parte anche il suo Ministro della Difesa Shoygu ormai parla apertamente di “guerra” e non più di “Operazione Militare Speciale”, e quindi dovrebbe essere arrestato sul posto se la legalità fosse davvero un aspetto di cui tener conto.
Però il fatto che la mobilitazione sia solo “parziale” e non “generale” indica chiaramente come il Regime sia giunto alla conclusione che chiamare alle armi classi di cittadini non ancora addestrati fosse futile o addirittura dannoso. E questo naturalmente ci conferma la mancanza di equipaggiamento disponibile, di istruttori e di strutture d’addestramento e magari anche la consapevolezza che disporre di un paio di milioni di fantaccini armati di fucile in primavera sarebbe militarmente inutile.
La mobilitazione parziale implica il richiamo in servizio di 300 mila uomini che hanno già fatto il servizio militare (biennale) e che erano tornati alla vita civile. Gente che sa cosa aspettarsi dall’esercito e che avuta l’opportunità di arruolarsi volontaria con un lauto stipendio già negli ultimi mesi, ha detto “no, grazie”. Gente, fra l’altro, che rappresenta la base lavorativa attuale nell’industria e nell’agricoltura, e che verrà a mancare in un momento di grave difficoltà economica. Gente infine che – secondo le rilevazioni demoscopiche russe – rappresenta la fascia di popolazione meno soddisfatta del Regime.
Secondo quanto si apprende, questo personale passerà attraverso tre settimane di addestramento e verrà immesso al fronte per ripianare le perdite dei BTG in prima linea, che risultano mediamente essere ormai ridotti intorno al 50% della Capacità Operativa originaria.
Considerato il livello degli equipaggiamenti disponibili, questo personale probabilmente non sarà preparato adeguatamente all’inverno, e raggiungerà Unità demoralizzate proprio all’inizio della brutta stagione e in una fase della guerra decisamente poco favorevole.
Non c’è di che aspettarsi che il loro morale sia molto alto.
I referendum, per quanto illegali in base al diritto internazionale e impossibili da tenersi in maniera anche solo apparentemente regolare, soddisferanno l’ala intransigente del regime e nell’ottica di Putin dimostreranno ulteriormente la sua determinazione.
In termini pratici però cambieranno ben poco. L’opinione pubblica occidentale è spaventata dall’affermazione secondo cui una volta che per la legge russa il Donbass diventa Russia, la sua invasione porterebbe all’impiego di armi nucleari. Questo può essere anche un modo di leggere le cose almeno in teoria, ma la situazione non cambia: per il mondo il Donbass NON È Russia, né mai lo sarà, e quanto già valido in precedenza rimane valido. Ad ogni impiego di armi non convenzionali in Europa, la NATO risponderà in maniera immediata, proporzionale e automatica. Putin e i suoi lo sanno, e infatti la minaccia non è stata ribadita con alcuna enfasi, se non sui media occidentali innamorati del problema: Putin non minaccia azioni specifiche se sa di non essere in grado di portarle a termine, perché altrimenti gli oltranzisti potrebbero pretendere di vederle messe in atto e lui apparirebbe debole.
Diverso è fare minacce vaghe, come quelle di “passare alle maniere forti”, che vuol dire tutto o niente, compreso bombardare dighe civili…
La situazione NON è cambiata significativamente: l’esistenza della Russia come Nazione non è a rischio, lo è solo il Regime. Anche un Putin disperato, irrazionale e votato al “muoia Sansone”, non potrebbe convincere oligarchi, generali e soldati con interessi economici e famiglie a carico, a scatenare una guerra in cui perderebbero tutto: ciascuno di loro preferirebbe una Russia senza Putin ad un mondo senza Russia.
Quest’ultimo aspetto, e cioè la relatività della lealtà degli uomini vicini all’autocrate, è forse il più interessante – e anche quello più difficile da analizzare – fra quelli connessi al discorso alla Nazione.
Si sa che l’establishment economico russo, compresi gli oligarchi, la presidente della Banca Nazionale e numerosi esponenti dei Servizi, sono fieramente contrari alla mobilitazione generale, per ragioni diverse che spaziano dalla gestione dell’economia a quella dell’ordine pubblico.
Si sa anche che molti militari di alto rango invece la invocano come una sorta di panacea per risolvere i problemi dell’esercito, ignoranti come sembrano essere della situazione economica di fondo.
Parrebbe quindi che il ritardo del discorso di Putin sia da attribuire proprio allo scontro fra tali due fazioni della Nomenklatura, e che il suo contenuto finale rispecchi un disperato tentativo di mediazione.
Ma da quando in qua l’orso Vladimiro ha avuto bisogno di misurare le sue parole per accontentare le fazioni che lo circondano?
Finora il potere dello zar è stato assoluto: le fazioni, seppure esistenti, dovevano adattarsi alla sua volontà, e non viceversa. Pertanto, se – come sembra – prima i ritardi e poi il contenuto del suo discorso alla Nazione sono il risultato di una mediazione fra fazioni interne al regime, questo starebbe ad indicare una sostanziale perdita di potere personale da parte di Putin.
Una perdita di potere personale da parte dell’orso potrebbe essere un buon segno: dopo tutto, questa è essenzialmente la “sua” guerra, voluta e preparata per tutta la sua carriera politica, e la Nomenklatura alle sue spalle, vista la mala parata, potrebbe essere molto più propensa a mettervi fine prima che sia troppo tardi, cercando di uscirne con il minor danno possibile.
D’altra parte non si vedono alle spalle di Putin stesso figure capaci di prendere il suo posto con la stessa autorevolezza, e in caso di sua caduta una Federazione con un esercito estremamente indebolito, Servizi divisi e screditati e una burocrazia dominata da dirigenti selezionati più per lealtà che per competenza, rischia la disintegrazione lungo linee multiple. Potentati economici, reti di intelligence deviata, milizie private, fazioni delle Forze Armate, Oblast periferici e etnie guerriere potrebbero tutti scegliere il proprio interesse su quello della Federazione in una Russia improvvisamente priva di un orso Vladimiro, e QUESTO anche se potrebbe portare alla fine della guerra, non sarebbe necessariamente un buon auspicio per la pace che ne seguirebbe.
Orio Giorgio Stirpe