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Duecento giorni di guerra.
Forse possiamo cominciare a trarre qualche conclusione, almeno in via provvisoria.
La prima è la più importante: l’invasione russa dell’Ucraina è fallita.
Su questo ormai militarmente non c’è più nessun dubbio. È ancora presto per dire che la guerra è finita, perché se metà dell’esercito russo è in rotta – perché di rotta si tratta quando le Unità perdono coesione e scappano abbandonandosi dietro di tutto e senza organizzare nessuna azione di ritardo o di disturbo – l’altra metà è ancora abbastanza coesa nella parte meridionale del fronte.
Inoltre esiste la possibilità di raccogliere e raggruppare i fuggiaschi e mandarli a combattere di nuovo: occorre tempo e molta capacità di controllo, ma si può fare. Difficile che quei soldati traumatizzati dalla disfatta possano tornare a combattere all’offensiva, ma potrebbero essere impiegati in ruolo difensivo, soprattutto se per difendere la propria terra.
Le forze russe dell’OSK Sud potrebbero essere fatte esfiltrare dalla trappola di Kherson e impiegate per difendere la Crimea e ristabilire il fronte lungo il confine internazionale, e con queste forze la Russia potrebbe ostinarsi a continuare la guerra.
Ma l’invasione è fallita. In nessun caso Putin riuscirà ad ottenere anche uno solo degli ambiziosi obiettivi che aveva indicato nel suo discorso alla Nazione il 23 febbraio.

Cosa è successo nelle ultime, devastanti 72 ore?
È successo che l’esercito ucraino ha messo in atto una pianificazione operativa accuratamente studiata e organizzata: ha messo finalmente in campo le Unità generate e addestrate in seguito alla mobilitazione generale, ha messo a frutto gli aiuti occidentali in termini di equipaggiamenti, di ricognizione strategica e di dottrina, e ha dato fiducia ai soldati e ai Comandanti sul campo, concentrando le forze migliori nel punto più debole del nemico.
I russi erano logorati oltre misura dalle battaglie di attrito degli ultimi mesi, in cui si sono ostinati in una sterile offensiva anche dopo aver chiaramente culminato le loro capacità di attacco, assottigliando oltre misura il loro intero fronte: erano indeboliti e demoralizzati, ridotti a tenere il fronte con poche unità esauste, riservisti delusi, volontari poco addestrati e miliziani deportati a forza dal Donbass. Le poche riserve di paracadutisti nelle retrovie garantivano un minimo di reattività in caso di attacchi nemici, ma la pesante azione di fissaggio su Kherson le aveva richiamate tutte all’estremità meridionale del fronte, raggiungibile solo per “linee esterne” al grande saliente rappresentato dall’Ucraina intera.

L’attacco ucraino non era poi una gran cosa: quattro Brigate altamente mobili, bene equipaggiate, altamente motivate, ma sostanzialmente poco numerose; però sono state lanciate con precisione nel punto giusto.
Il sottile fronte russo si è spezzato e le forze corazzate ucraine hanno dilagato oltre. Le riserve che avrebbero dovuto affrontarle non c’erano, e così niente ha potuto fermarle, e neppure rallentarle. Le Brigate ucraine avanzavano sul loro stesso territorio, accolte dalla loro stessa gente e agevolate dalla Resistenza che prendeva rapidamente il controllo delle strade e dei ponti. Fra gli obiettivi da raggiungere c’erano i depositi di carburante e di munizioni russi, che questa volta NON sono stati distrutti preventivamente, ma piuttosto catturati e messi a frutto per alimentare l’avanzata.

Con gli ucraini che cavalcavano in profondità e nel contempo chiudevano le vie di fuga catturando ponti e passaggi obbligati, le forze russe rimaste isolate si sono disintegrate. L’unità di comando – principio fondamentale della Guerra dai tempi di Sun Tzu – si è spezzata, ed è stato il “si salvi chi può”.
La differenza fra una ritirata strategica e una rotta è che nel primo caso i reparti rimangono sotto controllo e ripiegano ordinatamente proteggendosi a vicenda, organizzando azioni di retroguardia e stabilendo una linea di arresto più indietro; come l’esercito italiano a Caporetto.
Quella russa è una rotta: i reparti non ci sono più; gli ufficiali in Comando sono scappati per primi, l’equipaggiamento pesante è stato abbandonato, i depositi lasciati indietro intatti, i soldati scappano sui camion o addirittura a piedi. Non si vede una linea di arresto simile al Piave, e la fuga sembra finire solo al confine internazionale… Nella speranza che gli ucraini non decidano di attraversarla sull’onda dell’entusiasmo.

Un concetto fondamentale da comprendere dell’arte militare è quello della contrapposizione delle forze. Chi si difende cerca di opporre i propri punti forti ai punti forti nemici, e quelli deboli a quelli deboli: in questo modo si cerca di stabilizzare il fronte e di resistere lungo tale linea.
Chi invece ha l’iniziativa e attacca, cerca di fare il contrario: individua i punti deboli del nemico e concentra lì le sue forze per rompere il fronte e spingersi in avanti.
Con il “fissaggio” a Kherson gli ucraini hanno assunto l’iniziativa e premuto in un punto che hanno indotto i russi a rendere esageratamente forte a scapito di tutti gli altri… Così l’attacco vero è stato sferrato dalla parte opposta del fronte, nel punto più debole.
Sun Tzu sorride.

Strategicamente la situazione è tragica per i russi. Con la disintegrazione dell’OSK Ovest – che era responsabile della porzione settentrionale del fronte – l’esercito ucraino si trova posizionato fra l’esercito russo rimanente e il resto della Russia. Per assurdo, le unità corazzate più vicine al Cremlino sono quelle ucraine.
L’OSK Sud – il raggruppamento di forze russe che reggono la porzione meridionale del fronte, da Kherson a Donetsk – è ancora operativo, anche se si trova completamente spiazzato. Le sue unità migliori sono ingaggiate nella trappola di Kherson e avranno grossi problemi a ripiegare sulla sponda est del Dnipro; il resto delle forze schierate fra Zaporzhizhia e Donetsk è ancora estremamente sottile ed è tormentato da una Resistenza particolarmente attiva nella regione di Melitopol. In queste condizioni, l’OSK Sud può scegliere se tenere duro dove si trova e rischiare la stessa fine dell’OSK Ovest (con l’handicap aggiuntivo delle linee di rifornimento tre volte più lunghe e che passano tutte per il ponte di Kerch), oppure ripiegare in Crimea per difendere la penisola e inviare forze nel Donbass per cercare di difendere almeno la linea del 24 febbraio.

Nel marasma di questa situazione, emergono due aspetti fondamentali che hanno compromesso le operazioni russe: le intromissioni di Putin nella catena di Comando, che rendevano ondivaga la manovra militare sottoponendola alle esigenze politiche, e la completa inettitudine dell’Aviazione, chiaramente incapace di sostenere l’azione terrestre e poco disposta a rischiare perdite per agevolare la manovra combinata.
La rigidità del sistema russo di Comando e Controllo, che avoca tutte le decisioni al livello più alto possibile, si è dimostrata disastrosamente perdente di fronte alla dottrina occidentale sposata dagli ucraini, che delega decisioni anche operative ai Comandanti sul campo: in questo stesso momento giovani comandanti di compagnia ormai veterani guidano di iniziativa le loro unità in avanti mantenendo i giusti collegamenti con il Comando superiore (che così non perde il Controllo) e massimizzando le possibilità operative in base alla situazione del momento. Il capitano ucraino che trova intatto un ponte non si ferma aspettando l’ordine di attraversarlo, ma lo supera di slancio avvertendo i suoi superiori che è già oltre l’obiettivo assegnato, e riceve gli ordini successivi mentre è in movimento; il suo avversario russo rimane fermo aspettando che qualcuno gli dica cosa fare… Qualcuno che magari in quel momento è troppo occupato a scappare dalla sacca di Izyum.

Non è possibile dire oggi, a duecento giorni dall’aggressione, che la guerra sta finendo: non ancora. Ma è possibile dire che l’aggressione dell’orso Vladimiro è fallita.
La sua pelle gli ucraini se la rivenderanno più avanti… Fra un anno; o fra un mese.

Orio Giorgio Stirpe