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Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov chiede che lo stop alle sanzioni contro Mosca rientri nella trattativa per i negoziati di pace tra Mosca e Kiev. Giorni fa, il presidente ucraino, Vlodomyr Zelensky, era stato chiaro sul punto dicendo che le sanzioni anti-russe non avrebbero potuto «far parte dei negoziati», ma adesso lascia sapere alla EU che in effetti la sospensione o almeno la rimodulazione pei provvedimenti economici contro la Russia dovrebbero rientrare nelle trattative come strumento di pressione.

Cosa ci dicono queste due affermazioni ad alto livello provenienti dalle due parti in conflitto?

 

Da una parte Lavrov ci lascia capire per la prima volta che le sanzioni per la Russia sono un problema che va risolto. Lungi dal rappresentare come vantato dalla propaganda russa “un’opportunità per migliorare la produzione domestica”, le sanzioni stanno strangolando l’economia e il governo ne è perfettamente consapevole.

Dall’altra parte Zelensky conferma la sua posizione di forza nelle trattative e nel contempo la sua appartenenza ad uno schieramento più vasto del tutto all’altezza del suo avversario: mentre la Russia deve assolutamente conseguire qualche successo significativo da far pesare al tavolo delle trattative prima di sedervisi, lui può sedere anche oggi, forte di aver contenuto e praticamente arrestato l’offensiva della seconda potenza militare del mondo. Un atteggiamento un po’ arrogante, ma comprensibile: quello che a lui sta a cuore, è il ritiro delle forze russe dal territorio ucraino: un ritiro niente affatto scontato.

 

Mosca continua a rilanciare nella necessità quasi disperata di conseguire almeno qualche successo capace di giustificare la propria “operazione militare speciale” agli occhi del mondo e soprattutto della propria popolazione, ma nel frattempo lancia segnali all’Occidente.

Perché ovviamente Zelensky non ha il potere di sospendere le sanzioni, che dipendono sostanzialmente dagli USA e soprattutto dalla EU: Lavrov sa che per ottenere la revoca delle sanzioni, o almeno un loro alleggerimento, deve concedere qualcosa all’Occidente, più che all’Ucraina stessa.

Ma quel “qualcosa”, difficilmente potrà differire dal ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina, perché la Russia ha molto poco altro da mettere sul tavolo.

 

Il problema di Lavrov, e di chiunque mantenga i nervi saldi a Mosca, è che ormai l’Occidente ha mangiato la foglia, e dell’attuale regime russo non si fiderà mai più. Anche se le sanzioni fossero tutte ritirate, il danno sarebbe fatto: non importa a quale titolo, l’Ucraina è e rimarrà in campo occidentale, Svezia e Finlandia entreranno nella NATO triplicando la frontiera comune dell’Alleanza con la Federazione Russa, e soprattutto la EU diversificherà definitivamente le sue importazioni energetiche liberandosi dalla sua dipendenza dalla Russia. Questo lascerà Mosca con l’alternativa fra abbassare disastrosamente i prezzi per cercare di recuperare qualche cliente in Europa, oppure rimanere con il suo gas invenduto e il petrolio da spedire in capo al mondo con le petroliere che non ha. Certo, potrebbe investire i pochi fondi rimasti dopo la guerra raddoppiando la rete dei gasdotti per rivendere le eccedenze alla Cina, ma a parte che tale impresa infrastrutturale richiederebbe diversi anni, vendere ad un cliente unico significa dover S-vendere al prezzo da questi stabilito. E la Cina non è famosa per la sua misericordia in campo contrattuale.

 

Se le sanzioni non verranno revocate, anche un successo militare conseguito in extremis sul campo in Ucraina non basterà a nascondere a lungo il disastroso costo economico della guerra. Ma d’altra parte sarà difficile che le sanzioni vengano ritirate senza che le forze di occupazione vengano ritirate dall’Ucraina, annullando quindi il risultato di qualsiasi eventuale vittoria dei generali russi.

 

Queste considerazioni lasciano quindi intravedere la possibilità di una prima incrinatura all’interno del governo russo: Putin e i falchi sono ancora determinati a perseguire un successo militare ad ogni costo che risollevi l’orgoglio nazionale russo indipendentemente dal prezzo economico di tale vittoria; ma Lavrov e probabilmente anche gli oligarchi russi stanno cercando di salvare il salvabile e garantire la sopravvivenza economica a lungo termine del Paese.

 

La posizione della “vittoria ad ogni costo” perseguita dai falchi russi è analoga a quella della “pace ad ogni costo” delle cospicue frange di protesta nell’opinione pubblica occidentale: posizione irrazionale, ideologica e determinata in modo quasi rabbioso a causa dell’evidente impossibilità di essere conseguita.

Analoga è anche la rispettiva sostanza: qualora venissero conseguite, sarebbero entrambe di cartone. La vittoria sul campo della Russia si pagherebbe con un catastrofico isolamento politico, diplomatico ed economico che la simpatia cinese non potrebbe colmare se non in misura minima, e molto presto i cittadini evoluti di Mosca e San Pietroburgo scoprirebbero che l’orgoglio nazionale e il carbone del Donbass non riempiono gli scaffali dei supermercati.

Nel contempo i vari commentatori “arrabbiati” delle nostre TV si renderebbero conto che l’effetto principale della “assenza di guerra” successiva alla vittoria russa sarebbe un drastico aumento dell’instabilità a est e in Asia, accompagnato da un corrispondente aumento delle spese militari per rispondere alle improvvise necessità difensive di Nazioni come la Polonia e la Romania e allo smarcamento progressivo della Turchia dal campo atlantico.

 

Le due ipotesi peraltro risultano convergenti, in quanto la “vittoria ad ogni costo” russa si può conseguire solo attraverso una “pace ad ogni costo” accettata dall’Occidente sotto la pressione dell’opinione pubblica più ferocemente pacifista.

È per questa ragione che la macchina della propaganda russa spinge a pieno regime, inondando il web di notizie prodotte ad arte sui “nazisti” ucraini, sui “laboratori biologici” americani e sulle malefatte, sull’antipatia e perfino sulle flautolenze degli esponenti del campo avverso. Assisteremo sicuramente a nuove iniziative oltraggiose volte a dimostrare l’indimostrabile, e cioè la responsabilità profonda dell’Ucraina e dell’Occidente in una guerra scatenata sì dalla Russia, ma alla quale il povero Putin sarebbe stato costretto dalle perfide macchinazioni delle demo-pluto-giudaico-crazie occidentali e dal nazismo ormai dominante a Kyiv.

Del resto, “ormai tutti sanno” che fin dal 2014 il figlio di Biden finanzia laboratori per la guerra batteriologica in Ucraina a ridosso del confine russo con la protezione del padre e che il “battaglione Azov” nazista rappresenta la spina dorsale dell’esercito ucraino che da anni sotto il regime golpista di Zelensky progettava l’invasione di una Russia pacifica e bendisposta, intenta a regalare all’Europa il suo gas di qualità eccellente per aiutarla a liberarsi dalla spietata dominazione americana…

È l’Ucraina a volere la guerra, come la volle la Polonia nel 1939: era chiaramente nel loro interesse essere invase e bombardate. E soprattutto è l’Occidente che provvedendo a sostenere chi si difende, prolunga insensatamente la guerra.

Come si fa a non capirlo?

L’orso Vladimiro la vede così. Purtroppo, anche fra di noi ci sono molti che la vedono così… E che propugnando i suoi argomenti fanno il suo gioco.

Se questa dicotomia negoziale russa dovesse effettivamente manifestarsi una volta che le parti si saranno finalmente sedute ad un tavolo per trattare, questo potrebbe portare ad una spaccatura fra falchi e colombe nello schieramento occidentale; e cioè fra coloro che vorranno imporre un alto prezzo alla Russia per la sua aggressione, e coloro che cercheranno invece di recuperarla al consesso della Nazioni civili e dell’Occidente stesso, magari in vista della fine – ormai non troppo lontana non foss’altro che per ragioni anagrafiche – del regime di Putin.