Ogni giorno una larga percentuale dei post “neutralisti” che si vedono sul web sono concentrati a ribadire l’assoluta necessità di “trattative” per giungere alla “pace” in Ucraina in generale e a Mariupol in particolare. Trovo interessante l’accostamento fra il generale e il particolare perché in questo caso aiuta a spiegare molte cose.
Questo, perché ovviamente la “pace” nel caso di Mariupol è esplicitamente indicata come una “resa”, mentre nel caso più generale si tende a evitare quella parola chiarificatrice, come se ci fosse un certo pudore ad adoperarla.
Cominciamo da Mariupol. Qui si tratta di una situazione che in gergo militare si definisce “tattica”, in quanto riguarda una posizione geografica precisa gestita da comandanti locali e dove il combattimento in atto ha conseguenze solamente indirette sulle operazioni militari in atto. La richiesta ossessiva della resa dura ormai da quasi un mese, ed è giustificata con le sofferenze della popolazione civile: sofferenze su cui non esistono dubbi, e che sono ampliate dalla evidente difficoltà ad evacuare la popolazione civile. Questa difficoltà all’inizio si è anche cercato di attribuirla agli ucraini che avrebbero cercato di usare la loro stessa popolazione come “scudi umani”; ora per fortuna nemmeno i russi provano più a ripetere una simile corbelleria, dopo che anche la Croce Rossa ha confermato come siano le milizie russe ad impedire l’attivazione dei corridoi verso l’Ucraina: l’evacuazione da tempo funziona solo verso la Russia, e assume l’aspetto di una autentica deportazione, reminiscenza di fenomeni già accaduti in passato nella stessa area geografica e da parte di governi similari. Ovviamente la presenza di popolazione civile da sempre è un handicap per i difensori, che hanno meno da mangiare, ma i minions del regime hanno insistito a lungo sulle responsabilità degli ucraini.
Ma perché Mariupol non ha voluto arrendersi finora, pur sapendo che le probabilità di una liberazione sono molto scarse? Perché la resistenza in quella località, oltre ad avere un forte significato politico (si tratta dell’unico porto del Donbass e è il luogo di una sconfitta dei filo-russi nel 2014), ha rilevanza militare in quanto tiene fissate forze russe qualificate al combattimento in area urbana disperatamente necessarie per l’offensiva su Kramatorsk non ancora iniziata. Si tratta dei ceceni di Kodorovsky e dei miliziani di Donetsk oltre che della fanteria di marina della Crimea, e meno ne sono disponibili più a nord, maggiore è la probabilità che l’offensiva stalli o fallisca del tutto. Inoltre, proprio la presenza di elementi criminali fra gli attaccanti rende i difensori poco disposti alla resa; specialmente ora, che la difesa è ristretta alla zona portuale e ormai non coinvolge quasi più la popolazione civile. Mariupol è stata data per “arresa” ormai diverse volte, e la sua resistenza ostinata è diventata un simbolo per gli ucraini decisi a resistere.
Quando però si parla dell’Ucraina in generale, non si parla più di “resa”: anzi, se chi obietta usa quella parola, i “neutralisti” insorgono indignati, perché loro vogliono la pace e non la resa dell’Ucraina. Moltissimi sono sicuramente in buona fede e hanno anche le loro ragioni, ma le loro convinzioni sono pie illusioni. Il problema è che per fare la pace occorre essere in due, mentre per combattere basta che ci sia un aggressore. Se quest’ultimo interpreta le trattative unicamente come un modo per rappresentare le sue richieste non trattabili, non vi può essere altro risultato che il fallimento delle stesse oppure – appunto – una resa.
All’inizio del conflitto, Putin ha messo bene in chiaro le sue richieste, specificandole in TV: riconoscimento da parte di Zelensky della perdita di Crimea e Donbass, rinuncia all’adesione alla EU e alla NATO, disarmo e “de-nazificazione”. L’Ucraina ha rifiutato, e il risultato è stato la prima grande battaglia della guerra, centrata su Kyiv… Che i russi hanno perso.
Dopo la ritirata da Kyiv, contate le perdite subite e rifatti i calcoli, le richieste di Putin si sono ridotte: ora oltre a Crimea e Donbass si accontenta della rinuncia alla sola NATO. L’Ucraina ha rifiutato di nuovo e così ci si prepara a una seconda battaglia, che questa volta sarà centrata sul Donbass. I “neutralisti” a questo punto accusano l’Ucraina di intransigenza e – assodato che la Russia sia l’aggressore e quindi sia ormai al di là di ogni critica giudicata a questo punto inutile – il governo di Kyiv sembra sia l’unico da criticare per il perdurare delle ostilità.
Onestamente non riesco a seguire la loro logica.
Vediamo cosa sarebbe successo se l’Ucraina avesse accettato da subito le richieste di Putin. Un trattato avrebbe sancito il passaggio consensuale di sovranità di Crimea e Donbass, violando il principio di sacralità delle frontiere ed aprendo la strada in tutto il mondo ad analoghi conflitti. Il governo ucraino sarebbe caduto per cedere il posto ad un regime asservito a Mosca e subito con umiliazione e fastidio da una popolazione di oltre quaranta milioni di persone a cui sicuramente la maggioranza se non la totalità si sarebbe opposta. NATO e EU sarebbero state umiliate e Putin avrebbe visto accresciuto il proprio prestigio e le proprie ambizioni. Morti e distruzioni sarebbero stati risparmiati almeno per il momento, ma il confine con la NATO sarebbe stato fortemente instabile e probabilmente intensamente militarizzato per le paure dei Paesi confinanti come la Polonia o la Romania, per non parlare dell’instabilità di un’Ucraina “normalizzata” a forza.
Rifiutando la resa, l’Ucraina ha subito morti e devastazioni, ma si è sicuramente risparmiata la rinuncia alla EU, il disarmo e la “de-nazificazione”: in termini di dignità, integrità e sovranità, la resistenza ha sicuramente pagato, e gli ucraini ne paiono convinti. Ora, quindi, perché dovrebbero arrendersi adesso, quando la prima vittoria li rende convinti di poter vincere ancora e risparmiarsi anche il resto? Quanto a noi, la vittoriosa resistenza ucraina – grazie anche al nostro supporto – ha risparmiato a EU e NATO una pericolosa umiliazione che avrebbe destabilizzato l’Europa nel lungo periodo.
I “neutralisti” obietteranno che lo scenario che ho dipinto non sia corretto; personalmente io penso che lo sia, ma quello che pensiamo io o loro è irrilevante: conta che lo pensino gli ucraini. E’ statisticamente rilevante che non si sentano voci “disfattiste” in tutta l’Ucraina: la popolazione appare unita e decisa a continuare a resistere. Altra obiezione dei “neutralisti” è che morti e distruzione avrebbero dovuto essere evitati comunque… Di nuovo, spettava e spetta agli ucraini decidere: sono i LORO morti e la LORO distruzione. Rimane l’ultima grande obiezione neutralista: il rischio escalation se Putin non ottiene ciò che vuole, ed è qui che casca l’asino. I “neutralisti” non sono preoccupati per gli ucraini: sono preoccupati per sé stessi.
Abbiamo già parlato ripetutamente del rischio di escalation nucleare e di come non si possa cedere ad un ricatto irragionevole quando la sopravvivenza della Russia (o della NATO) non siano a rischio. L’Ucraina è in condizioni di vincere anche il secondo round, dopo di che la Russia sarà costretta a trattare finalmente con serietà e senza imporre “diktat”: solo a quel punto sarà possibile sedersi e discutere in due. Perché per fare la pace non si può essere in meno di due.
Per fare la guerra invece, basta l’orso Vladimiro.