Che Paese è quello che processa i suoi intellettuali?
Può un Paese permettersi di processare un intellettuale e continuare a ritenersi democratico?
Che Italia era quella che ha processato e condannato per plagio Aldo Braibanti?
Domande come queste mi sono girate in testa guardando il nuovo film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche, liberamente ispirato alla vicenda di Aldo Braibanti, intellettuale comunista, ex partigiano, processato negli anni Sessanta a Roma con l’accusa di plagio. Plagio, cioè sottomissione intellettuale, psicologica ai danni di un suo giovane allievo, Giovanni Sanfratello (nel film Ettore). Uno dei ragazzi che componevano la comunità che Braibanti aveva raccolto intorno a sé nella torre Farnese, in provincia di Piacenza, dove portava avanti la sua attività poetica, la sua sperimentazione teatrale, i suoi studi sulle formiche.
In realtà l’accusa di plagio si è rivelata un espediente, prima della famiglia Sanfratello, e poi del collegio accusatorio, perché la vera colpa imputata a Braibanti era la sua omosessualità dichiarata, la sua diversità. Inaccettabile per la famiglia di Giovanni/Ettore, e per la Giustizia italiana.
Che cosa c’era nella diversità di Braibanti che ha spaventato la Giustizia italiana al punto da farlo condannare a 9 anni in primo grado (pena ridotta a 4 anni in appello e confermata poi in Cassazione)?
Siamo nel 1968, l’anno della rivolta giovanile, della contestazione. Forse l’Italia scopre di avere paura del nuovo, di un vento di cambiamento che può minacciare l’ordine costituito e lo status quo? Nel codice penale italiano viene scovato un vecchio relitto dell’epoca fascista, il reato di plagio, per il quale Braibanti rimarrà unico condannato nel secondo dopoguerra.
Non paga di aver denunciato Braibanti, la famiglia fa rinchiudere in ospedale psichiatrico Ettore, che viene sottoposto a ripetute sedute di elettroshock, che ne compromettono inesorabilmente l’equilibrio e l’integrità mentale. Per la famiglia dunque è più accettabile che il figlio rimanga inabile e menomato mentalmente piuttosto che riconoscerne l’omosessualità. Per la famiglia e per la società italiana.
Nel film il personaggio di Elio Germano, un giornalista dell’Unità libero e non allineato ai dettami di partito, rappresenta tutta quella parte di opinione pubblica italiana che tentò di mantenere una libertà di pensiero e di giudizio di fronte a un caso apertamente segnato da pregiudizi e malafede.
Durante il processo si scatenerà un forte movimento di protesta, la causa di Braibanti verrà difesa da intellettuali come Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, ma non fu sufficiente a evitare la condanna.
Il film però dà conto solo in parte del circo mediatico e del movimento di opinione che si sviluppò intorno al processo, solo nella misura necessaria per dare l’idea della portata degli eventi e le loro ripercussioni sulle vite dei due protagonisti, entrambi segnati indelebilmente da un processo ingiusto e di parte.
Più interessante per il regista è focalizzarsi appunto sull’umanità compromessa di Aldo ed Ettore, che hanno i volti – ardenti e vitali nella prima parte, sofferenti e lacerati nella seconda – di due attori meravigliosi: Luigi Lo Cascio e Leonardo Maltese. Non ha bisogno di presentazioni il primo, che ci ha abituati a interpretazioni magnifiche; al suo esordio il secondo, una vera sorpresa, intenso e vero in tutto il ventaglio delle espressioni che prendono forma sul suo volto nel corso del film.
Adele Maddonni