La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 33134/2022 si esprime su un argomento di rilievo comune per la vita dei lavoratori; la mancata produzione di Certificato medico in caso di malattia.
Le questioni relative alla mancata o tardiva presentazione della certificazione di malattia o il certificato medica che attesti, retroattivamente, uno status di morbilità iniziato alcuni giorni prima, sono, da sempre, oggetto di particolare attenzione da parte degli uffici del personale e dei professionisti che seguono la gestione dei rapporti di lavoro per le aziende.
Si tratta di situazioni che, spesso, sono oggetto di individuazione da parte dei CCNL di sanzioni di natura disciplinare che vanno dalla sospensione al licenziamento, come nel caso in cui il contratto collettivo distingua due fattispecie: quella della tardiva comunicazione della malattia da quella della assenza ingiustificata, atteso che il certificato di morbilità non è pervenuto nella sfera di destinazione del datore di lavoro.
Il caso è quello di un lavoratore licenziato per giusta causa in quanto risultato assente ingiustificato per sette giorni consecutivi dal posto di lavoro.
Il datore di lavoro, prima di irrogare, formalmente, il provvedimento di recesso, aveva seguito la procedura di garanzia “a difesa” prevista dall’art. 7 della legge n. 300/1970 (lettera di contestazione precisa e puntuale, audizione del lavoratore) e, soltanto al termine della stessa, aveva proceduto al licenziamento dell’interessato.
In sede di audizione (e, soltanto in quel momento), il dipendente aveva prodotto una certificazione medica attestante lo stato di malattia che “copriva” i sette giorni nei quali il datore di lavoro lo aveva ritenuto assente ingiustificato.
La Suprema Corte, a motivazione del proprio giudicato, ha preso atto che il CCNL applicato in azienda prevede, sotto l’aspetto disciplinare, due ipotesi:
· quella della tardiva giustificazione dell’assenza (punita con una sanzione conservativa);
· quella dell’assenza rimasta ingiustificata (punita con il licenziamento) in presenza di oltre tre giorni continuativi.
Sulla scorta di tale distinzione ha rilevato come la produzione del certificato medico soltanto in sede di audizione nella procedura disciplinare, integri la prima ipotesi (quella della tardiva giustificazione) pur se ciò è avvenuto a distanza di tempo, essendo, osserva la Corte, del tutto irrilevante che ciò si sia verificato nel corso della procedura disciplinare. Conseguentemente, il datore di lavoro avrebbe dovuto applicare una sanzione di natura conservativa, atteso che il contratto collettivo individua la tardiva giustificazione senza indicare alcun limite temporale relativo alla sua presentazione.
La Cassazione non ha tenuto conto della tesi aziendale secondo la quale la giustificazione dell’assenza andava, necessariamente, inquadrata a ridosso dei giorni di malattia: infatti ha sostenuto che, seppur presentata durante la procedura disciplinare, la certificazione medica retroattiva che “copre” i sette giorni di assenza, comporta la configurazione dalla fattispecie come “giustificazione tardiva”.
Di conseguenza, il licenziamento adottato è un atto illegittimo che comporta, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300/1970, la reintegra nel posto di lavoro con un risarcimento del danno commisurato ai mesi non lavorati ai quali si aggiunge la contribuzione di natura previdenziale, con la possibilità per il dipendente di rinunciare al posto di lavoro previo il pagamento di ulteriori quindici mensilità calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto.
L’ordinanza della Cassazione fa testo tra le parti e, nella decisione adottata, l’elemento decisivo è rappresentato dal CCNL applicato che prevede due fattispecie: quella della giustificazione tardiva e quella dell’assenza ingiustificata, purtuttavia, produce nel concreto operare aziendale, alcune perplessità difficilmente rimovibili, in quanto il lavoratore potrebbe assentarsi senza doversi preoccupare di presentare una certificazione sanitaria che, invece, potrebbe produrre successivamente (quindi anche molto tempo dopo) nel caso in cui il datore dovesse procedere ad una risoluzione del rapporto al termine dell’iter disciplinate previsto dall’art. 7 della legge n. 300/1970.
A.M.