In Italia il tasso di occupazione è in crescita anche se determinato dall’abbassamento demografico, dalle riforme pensionistiche e dalla maggiore occupazione femminile, dovremo abituarci a un modello in cui le variazioni sono più dinamiche, sia nei momenti di aumento che in quelli di rallentamento del Pil.
Per la prima volta la percentuale di italiani tra i 15 e i 64 anni che lavorano, ha superato la soglia del 60%, a metà 2022 è arrivato al 60,2%, non era mai andato oltre il 59,1% dell’estate 2019 e il 58,7% di metà 2008, prima della Grande Recessione.
I lavoratori sono 23 milioni e 150mila, 27 mila in meno di 3 anni fa, a testimonianza del calo demografico che comincia a farsi sentire.
Ci avventuriamo in una nuova crisi, frutto della guerra Ucraina che ha provocato l’impennata dei prezzi dell’energia, una crisi così simile e così diversa dalle altre.
Non ci sono mai stati così pochi inattivi, 12 milioni e 815 mila, in valore percentuale il 34,4%, all’incirca come nel 2019, a testimonianza che il rimbalzo dalla crisi pandemica è stato forte, e ci ha riportato in breve tempo ai livelli pre-Covid.
Il mercato del lavoro è tornato positivo, caratterizzato da una forte riduzione di chi non aveva un impiego e non lo cercava, grazie alle riforme delle pensioni che hanno indotto molti 50enni e 60enni a rimandare il ritiro.
I disoccupati a metà 2022 erano l’8,1%, decisamente più del 2007 e 2008, a causa del fatto che meno italiani hanno rinunciato a cercare un lavoro.
La legge Fornero e le altre precedenti ha innalzato il tasso di occupazione degli over 50 al 61,6%, era circa 15 punti più basso nel 2008, a dispetto del fatto che quello medio fosse analogo dell’attuale, la perdita di posti di lavoro da parte dei più giovani si era arrestata intorno al 2014, anno dopo il quale vi è stato un recupero, che si è accentuato, e qui sta la novità, proprio in questa fase di ripresa post-pandemica.
I 25 e i 34 enni ne hanno beneficiato maggiormente, sia se il termine di paragone è il secondo trimestre 2019, prima del virus (+3,4% il tasso di occupazione), sia nel 2020, durante il lockdown più duro (+7,8%), anche i giovanissimi, con meno di 25 anni, hanno visto aumentare di più i posti di lavoro.
Per la prima volta i favoriti sono stati i più deboli e i lavoratori del Mezzogiorno quelli che hanno visto il maggior recupero del tasso di occupazione, cresciuto del 4,1% rispetto al secondo trimestre 2020, ed è arrivato al 47,1% a metà di quest’anno.
La percentuale è bassa se confrontata con quella del Nord Italia (68,2%) o con quella media UE, ma rappresenta un record e un miglioramento rispetto alla fase pre-pandemica, quando non si era andati oltre il 44,8%.
Merito dell’aumento dei posti di lavoro femminili, che a differenza di quelli maschili ha toccato il massimo, nonostante il divario tra tasso di occupazione di uomini e donne sia rimasto ultimamente pressoché costante.
Si tratta di dati confortanti in un Paese in cui sul versante economico in questi decenni di declino di buone notizie ve ne sono state poche, però è altrettanto doveroso sottolineare quanta fragilità vi sia alla base di questi numeri, fragilità che avrà un impatto sul modo in cui il mondo del lavoro potrà affrontare la crisi in arrivo e di cui già si vedono i primi segnali.
Alla base dell’aumento di occupazione, anche giovanile, vi è banalmente, la crisi demografica che rende sempre meno numerosi i giovani, e, quindi, più ambiti.
Tramontato il modello di famiglia che vede la donna sposarsi, avere figli e rinunciare al lavoro, lasciando al marito il ruolo di unico percettore di reddito della famiglia, questo si riflette nell’incremento dei posti di lavoro femminili, favoriti anche dalla maggiore istruzione delle donne.
La presenza di nuclei familiari sempre più composti da single, giovani donne o uomini di ogni età, non solo fa in modo che in caso di disoccupazione si cada più facilmente nell’indigenza, rende la ricerca di un impiego di sopravvivenza e non si va troppo per il sottile per cui diventa vitale qualunque impiego, anche se mal pagato e precario.
Le retribuzioni ristagnano e non sono salite come l’occupazione, mentre i contratti a termine rispetto al 2019 sono cresciuti molto più di quelli a tempo indeterminato, +5,2% contro +1,2%.
Tra i settori che hanno visto il maggior incremento di occupazione negli ultimi mesi ve ne sono di particolarmente fragili e solitamente tra i più sensibili ai marosi delle crisi; l’immobiliare, dove il numero dei lavoratori è del 79,1% più alto che nel 2015, quello delle costruzioni (+31,4%, con un’accelerazione nell’ultimo anno e mezzo), quello dell’alloggio e ristorazione, che nonostante il crollo del 2020 ha visto un ritorno veloce ai livelli pre-Covid.
Il dilemma è se meglio avere meno occupati ma assunti con anzianità, con posto sicuro, che tanti con un impiego fragile o più italiani, giovani, che abbiano a disposizione un reddito, anche se per breve tempo, soprattutto per avere risorse per resistere ai periodi di crisi.
Dobbiamo adattarci a un modello di mercato del lavoro diverso, più simile a quello di altri Paesi dell’Occidente, dove le variazioni sono più ampie, sia nei momenti di crescita veloce che di rallentamento del PIL.
Si deve essere consapevoli che questa maggior fame di lavoro, lavoro che si trova più velocemente di prima, ma che si può perdere altrettanto velocemente, rende più necessario un welfare, fatto di sussidi, formazione, riqualificazione molto più forte di oggi.
Il paracadute della famiglia è sempre più debole, e la povertà oggi è dietro l’angolo più di ieri.
A.M.