Ultime notizie

Dopo lo stunt dell’analisi politica, provo ad esibirmi in un commento dello stesso stampo.

Ma lo faccio a partire da un aspetto puramente professionale… Vediamo se ne esce qualcosa di condivisibile.

 

Chi mi segue da un po’ sa che sono un appassionato di arte militare oltre che di analisi, che studio la dottrina nostra e altrui, e naturalmente anche la storia. Mi sono trovato così nel corso della mia carriera a riflettere su un fatto curioso.

In passato, i grandi teorici dell’arte e della dottrina militare (da Sun Tzu a Clausewitz e poi a seguire fino ai nostri Douhet e Mecozzi) hanno scritto i loro saggi che poi occasionalmente sono stati riveduti e corretti dai rispettivi editori. Anche in ambito operativo, i grandi generali stilavano i loro piani a grandi linee, e poi i rispettivi staff trasformavano le loro minute in documenti formali.

Oggi più o meno succede il contrario. Il generale decide che è ora di aggiornare la dottrina o di stilare un piano operativo, e incarica il suo staff di generare idee e stilare una minuta; poi lui rivede quanto sottopostogli, lo aggiusta nella forma e lo approva con la propria firma.

In sostanza, la parte creativa oggi è svolta dallo staff, e il generale ha solo un compito notarile di formalizzare il tutto mettendoci la faccia.

Naturalmente è un po’ più complicato di così, ma credo di aver reso l’idea…

 

Più recentemente, mi sono trovato ad osservare che questa evoluzione (involuzione?) riguarda un po’ tutti i campi; in particolare riguarda la politica.

Mi spiego: Cicerone scriveva i suoi discorsi; è famoso come oratore soprattutto per questo, anche se era anche bravissimo a declamarli. I grandi statisti della storia sono stati tali in forza delle loro idee e del modo di portarle avanti in pratica; il compito di comunicare e diffondere tali idee lo delegavano di massima ad altri.

Insomma: lo statista generava le idee, e il suo staff provvedeva a comunicarle. Esisteva la figura del politico di professione, e quella del suo portavoce: il politico era il capo, e il portavoce era il suo galoppino.

Oggi, nell’era dei social, sembra essere l’opposto.

 

Il politico di successo non è colui che ha una visione chiara del modo in cui vuole plasmare il mondo, bensì colui che sa come porsi in pubblico, come “vendere” la propria immagine (non le sue idee) e come parlare al suo pubblico… Perché parlare è diventato più importante che non avere qualcosa da dire.

Il galoppino ha sottomesso il politico, chiudendolo in una stanza a scrivergli i discorsi, e si è fatto primadonna.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

 

Noi oggi in massima parte votiamo per dei portavoce: gente capace di comunicare idee, ma non di generarne; gente che ha bisogno di Ghostwriters che gli scrivano i discorsi e di personale di staff che gli rediga piattaforme politiche, e che poi sono bravi a offrire al pubblico.

In massima parte, stiamo eleggendo imbonitori, non politici.

Nessuna meraviglia se una volta eletti non abbiano idea di cosa fare; e nessuna meraviglia se le loro piattaforme politiche in realtà dicano poco o niente, oppure contengano solo promesse irrealizzabili. Perché lo scopo dell’imbonitore non è realizzare un’idea, ma vendere un prodotto.

 

Una volta che l’imbonitore ha successo vendendo il suo prodotto, l’unica cosa cui sa pensare è continuare a venderlo. L’unica preoccupazione del politico eletto, è essere rieletto.

Chi ha una visione politica reale, se c’è, rimane nell’ombra, alle spalle dell’imbonitore.

Le rare volte che tale – raro – individuo riesce ad emergere, di solito si rivela un pessimo comunicatore: sbaglia nel “vendere” le proprie idee, commette un errore di comunicazione, ed è subito travolto dal fango che gli gettano addosso i comunicatori professionisti, ansiosi di liberarsi di lui prima che riesca a mettere in luce la loro inconsistenza.

 

Di fatto, dobbiamo sperare che il brillante imbonitore che eleggiamo abbia alle spalle uno staff che comprenda gente preparata e con idee chiare su cosa fare. Occorre quindi che l’imbonitore abbia almeno la capacità di giudicare le persone e sappia scegliersi i tecnici a cui demandare le scelte importanti (che poi lui provvederà a “venderci”).

Per fortuna, questi tecnici esistono; hanno livelli di competenza variabili, ma ci sono: sono il prodotto delle nostre università. In quanto tali, sono più o meno “standardizzati”. Questo perché, appunto, sono tecnici: non statisti.

Questo spiega perché una volta eletto il politico di turno, questi sembra fare più o meno la stessa politica del predecessore che abbiamo appena mandato a casa.

L’arte del governo si è trasformata in procedura amministrativa: i tecnici per definizione sono dotati di molta professionalità e di poca fantasia. Aggiungiamo che la gestione dell’economia statale è diventata così complessa che i margini di manovra risultano strettissimi (a meno di disporre di molta creatività e coraggio oltre che di professionalità, elementi di cui gli amministratori solitamente difettano), e tutte le roboanti differenze fra destra e sinistra si riducono una volta alla resa dei conti a pure dimostrazioni simboliche.

 

Non sono abbastanza vecchio da ricordarmi gli statisti italiani del passato, ma mi sembra di capire che De Gasperi e Einaudi fossero personaggi abbastanza opachi in pubblico; Almirante e Berlinguer avevano carisma, ma non davano spettacolo. Andreotti era capace di spunti ironici grandiosi, ma per il resto era noiosissimo. Ora, io non condivido molti degli orientamenti di questi personaggi, ma devo riconoscere che ciascuno di essi era portatore di una visione politica ben precisa e assolutamente sua propria.

Ciascuno di loro disponeva poi di uno staff di subordinati e di comunicatori che aggiustavano, vestivano e diffondevano il messaggio politico che conteneva la loro visione.

Oggi che i galoppini hanno preso il potere, non hanno alcuna visione precisa da offrire: solo slogan da stadio e promesse impossibili da mantenere quando all’opposizione, e scuse condite da espressioni di buona volontà quando al potere.

 

È difficile votare in queste condizioni, e purtroppo in questo quadro l’astensionismo diventa drammaticamente comprensibile.

Se poi uno decide di recarsi a votare ugualmente, spesso ha un altro problema.

In un mondo dove il saper vendere conta più dell’avere qualcosa da vendere, il carisma del leader di partito è diventato la caratteristica dominante del partito stesso. Attenzione: il carisma non è sinonimo di leadership; è solo il suo componente più immediatamente visibile… Quello che attira l’attenzione. Ma ne parleremo un’altra volta…

È diventato difficile distinguere il partito dal suo leader. Per chi non è ideologizzato e/o non ha un senso di appartenenza specifico, non è semplice scegliere se votare il partito (che almeno in teoria corrisponderebbe ai suoi ideali di riferimento) oppure il leader che gli ispira maggiormente fiducia: le due opzioni raramente corrispondono. Spesso il partito che ti sembrerebbe più rispondente è guidato da una persona insopportabile; oppure il personaggio che ti attira è alla testa di un partito i cui ideali o le cui origini non ti convincono.

Non solo in Italia, abbiamo assistito negli ultimi anni a scene indegne di personalismo che sconfinano nel più puro narcisismo, da parte di personalità politiche talmente convinte dal proprio stesso carisma da rimanerne affascinate loro per prime, con effetti devastanti per la loro parte politica (se non addirittura per il proprio Paese).

Quanto ai partiti, sono diventati ondivaghi nelle loro politiche, ad un punto tale che molti non si raccapezzano più. Cosa direbbe Ronald Reagan se vedesse il Partito Repubblicano di oggi? Achille Occhetto riconosce ancora il suo partito nel suo erede diretto? Umberto Bossi ha appena detto cosa pensa del suo… Ovvio che l’elettore si chiede cosa farà domani il partito per il quale vota oggi.

 

Il motivo per cui di solito non mi cimento in analisi o commenti politici è che, essendo un militare, non ho risposte alle domande che mi pongo in questo ambito. La politica è l’arte del compromesso, e un militare che si rispetti tende a respingere i compromessi…

L’unica conclusione che mi viene, è che non solo l’Italia, ma l’Europa intera abbiano bisogno di statisti capaci di una visione per la quale siano disposti a lottare. Non di galoppini promossi leader di partito e capaci di fare solo gli imbonitori.

 

Orio Giorgio Stirpe