In questi giorni in cui veniamo bombardati da notizie sempre più atroci di violenze che credevamo relegate da tempo in regioni lontane dal nostro continente, assistiamo anche alla crescita di un dibattito sempre più acceso in cui la partigianeria sembra prendere il sopravvento sulla ragione. Secondo la migliore tradizione italiana siamo tornati come sempre ai Guelfi e ai Ghibellini.
Come già visto durante la crisi della pandemia, il dibattito invece di concretizzarsi in un’analisi del problema e in una ricerca di possibili soluzioni, si incancrenisce nella foga di sminuire e se possibile ridicolizzare l’opinione avversa.
Questo perché da una parte si evince il naturale fastidio per la continua proliferazione di notizie palesemente false e generate dalla propaganda di parte, e dall’altra si evince chiaramente la rabbia di vedere deriso un modello per lungo tempo ammirato e difeso.
L’ampia disponibilità di fonti attendibili offerta dalla moderna tecnologia ha per una volta reso relativamente omogenea la narrativa dei media cosiddetti “mainstream”: seppure con sfumature giustamente differenti, la guerra in Ucraina ci viene presentata in maniera coerente e dettagliata per come si sta effettivamente sviluppando, e la molteplicità delle fonti proposte garantisce una sostanziale aderenza ai fatti.
Abbiamo poi i “crociati” che fra gli opinionisti propongono escalation aberranti già ripetutamente rigettate dagli esperti in quanto manifestamente troppo pericolose e anche sostanzialmente inutili; dalla parte opposta abbiamo invece quelli che si scagliano contro quella che definiscono la “narrativa di regime”, dove per “regime” intendono l’apparato mondiale dei media “mainstream” che vedono come asservito all’Occidente “globalizzato”.
Che per esempio in Italia testate da sempre rivali come “Il Tempo” e “Repubblica” possano aderire entrambe ai dettami di una stessa volontà editoriale appare quantomeno improbabile, ma la vulgata – chiamiamola così per brevità – di queste “voci libere” è che il famigerato “mainstream” obbedisca ad una ben precisa linea politica filo-americana, atlantista, europeista, “globalista” e perfino “anti-cristiana” e “pro-LGBTQ+” …
Il mio personale problema con tale vulgata – molto più diffusa di quanto appaia, soprattutto nel nostro Paese – è che questa corrisponda quasi perfettamente con il messaggio propalato dalla propaganda del regime di Mosca, il quale appunto sostiene di essere in guerra per difendere la propria civiltà e il proprio mondo (“Mir”) da questa stessa linea di pensiero.
Naturalmente la gran parte di chi segue questa vulgata non è affatto un sostenitore di Putin: infatti quasi tutti si affrettano a ribadirlo costantemente e sicuramente sono in larga parte in assoluta buona fede; rimane però la sensazione che nel complesso fungano da cassa di risonanza per la propaganda del Paese aggressore.
Proviamo ad esaminare più nel dettaglio i seguaci della “vulgata”, o almeno coloro che più o meno direttamente si ergono contro la linea “mainstream” che sostanzialmente condanna l’aggressione russa, sostiene le ragioni dell’Ucraina e propugna un sostanziale supporto occidentale per assicurarne la difesa evitando però un intervento diretto.
Di massima pare di distinguere tre gruppi principali.
Il primo, che si evince abbastanza facilmente, è quello costituito dagli agenti consapevoli del Cremlino: coloro che, in quanto pagati oppure convinti sostenitori, propagano sistematicamente i messaggi provenienti dalla “fabbrica dei Troll” di San Pietroburgo, al numero 55 di via Savushkina, dove è stata da tempo individuata la sede in cui i Servizi russi producono le “Fakes” destinate ad incrinare la società occidentale.
Sono gli autori – per intenderci – dei post che vediamo apparire sistematicamente sulle pagine web dei principali giornali, inondandole di commenti filo-russi spesso scritti in pessimo italiano. Spesso gli autori si presentano come italiani residenti in Russia, oppure con mogli o cugini russi, e ci spiegano come tutto quello che leggiamo sulla Russia sia falso. Si dichiarano magari perfino “contrari a Putin, però…”. Sono quelli che si specializzano nel “rivoltare la frittata” spiegando come dietro qualunque problema del mondo ci siano sempre gli americani – di solito democratici e pro-LGBTQ+. Dove c’è poco da rivoltare, ricorrono al dileggio: se forse è vero che Putin è un po’ violento, d’altra parte Biden ha seri problemi di meteorismo. Come se le due cose potessero essere poste sullo stesso piano.
Il secondo gruppo è costituito da coloro che a questi messaggi credono in buona fede.
Sono cittadini onesti, di solito non impegnati in politica, ma spaventati dalla globalizzazione e dalle sue sfide. Rifiutano gli eccessi più recenti delle spinte progressiste (“guardare Netflix non è più divertente: in un giallo il colpevole è sicuramente l’unico maschio bianco adulto eterosessuale presente nel cast”…), e diffidano ormai per principio da tutto ciò che proviene dalla comunicazione “mainstream” della famosa linea globalista.
Di fronte all’uniformità di tale linea – quando questa è presente, come nel caso della pandemia o adesso con la guerra in Ucraina – prestano fede per partito preso a qualsiasi opinione contraria ad essa, in base alla parola d’ordine “non è tutto così come ce lo vogliono mostrare”, oppure, più recentemente, “è più complicato di così”.
In nome della libertà di pensiero si prestano a qualsiasi teoria (capostipiti fra tutte quelle delle “scie chimiche” e del “terrapiattismo”) reperibile sul web, e soprattutto molto spesso si offendono e si irrigidiscono quando qualcuno si impegna a discutere con loro. Sono quelli che si considerano impegnati nella “resistenza” contro un “regime” globalista, che in America votano per Trump e in Europa organizzano le manifestazioni no-Vax più violente.
Infine ci sono coloro che si impegnano con intento civico a rappresentare una posizione “neutrale”. In particolare nel contesto del dibattito sulla guerra in Ucraina, sono quelli genuinamente preoccupati per il rischio di un’escalation nucleare e che antepongono tale timore ad ogni altra considerazione. Rappresentano l’opposizione ai commentatori “mainstream” nei dibattiti TV, e sono spesso tacciati di “orsinismo”.
In effetti la loro posizione può apparire dubbia, proprio in quanto insistono a definirsi “neutrali” davanti ad un conflitto in cui non solo la maggioranza della gente si sente in qualche modo già schierata dalla parte della democrazia (per quanto imperfetta) militarmente aggredita da una dittatura, ma l’intero contesto cui apparteniamo – Italia, Europa, Occidente – hanno chiaramente preso posizione.
Questo disperato bisogno di sottrarsi a tale presa di posizione percepita come pericolosa in quanto avvicinerebbe la famosa escalation nucleare, li porta su posizioni che in quanto opposte allo schieramento a favore dell’Ucraina, appaiono di fatto sostenere quelle filo-Putin e per questo attirano scorno dai sostenitori della linea “mainstream”.
Il problema di questa posizione, che in democrazia appare non solo legittima ma addirittura necessaria per mantenere un sano dibattito, è che nella disperata ricerca di un accomodamento diplomatico per bloccare ad ogni costo il conflitto, richiede “concessioni reciproche”. Ora il fatto è che in un conflitto con un aggressore che ha pretese inaccettabili e un aggredito che chiede solo di tornare alle posizioni pre-conflittuali, qualsiasi concessione si concreta in un sacrificio da parte dell’aggredito e in una soddisfazione per l’aggressore.
Un esito che oltre ad essere immorale, rappresenterebbe anche un pericoloso precedente che istigherebbe altre aggressioni in altre parti del mondo.
È per questo che tutto sommato questa volta la linea “mainstream” dovrebbe davvero prevalere per fermare l’orso Vladimiro.