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Nel momento in cui la guerra continua ma le operazioni convenzionali languono, gli aspetti ibridi del conflitto assumono una rilevanza maggiore. La propaganda, lo scontro mediatico, le sanzioni economiche, l’attrito diplomatico e la cyber-guerra occuperanno sempre più spazio nell’attenzione del pubblico e quindi anche dei governi.

La gestione coordinata di questi aspetti va appunto sotto il nome di “guerra ibrida”. Nel caso russo, si parla comunemente di “Dottrina Gerasimov”.

 

In realtà, una specifica regolamentazione russa in merito probabilmente esiste ma è ovviamente classificata, e quasi sicuramente ha un altro nome. Viene chiamata così convenzionalmente in Occidente in quanto è emersa come prassi da parte russa sotto la gestione dell’attuale Capo di Stato Maggiore russo, persona intelligente ed estremamente capace, responsabile della riorganizzazione di un esercito russo allo sbando dopo il collasso dell’Armata Rossa, reduce dallo shock in Cecenia e dalle impreviste difficoltà emerse perfino in Georgia.

 

Sotto la gestione Gerasimov, la Russia ha preso atto dell’inaspettata valenza del cosiddetto “soft power” americano che tanto ha contribuito allo sfascio dell’apparentemente invincibile Unione Sovietica. Dove per “soft power” si intende tutto l’insieme di potenza proiettato da una Nazione al di là della sua forza prettamente militare: dall’uso universale della lingua alla pervasività della tecnologia, fino ai film di Hollywood, ai fast food e alla musica moderna, per arrivare infine all’informazione. Visto con ottica post-sovietica, questo insieme di elementi economici, sociali e culturali viene visto come un sistema combinato di vere e proprie armi impiegate con premeditazione dall’Occidente apposta per combattere e sottomettere il “mondo russo”. Un po’ come la cultura greca che “conquistò” il mondo antico.

In base a tale visione, la Russia ha stabilito a sua volta una serie di procedure e costituito assetti tesi a contrastare tale “soft power” visto come ostile con una versione “russa” alternativa e contrapposta con la quale minare la società dell’ Occidente considerato ormai irrimediabilmente ostile. Ecco dunque l’impiego spregiudicato dell’informazione “alternativa”, il confezionamento di “messaggi” mirati e la coltivazione di personalità occidentali in grado di veicolarli in modo da sostenere la posizione russa all’interno della società occidentale e indebolirne la volontà di opporsi alle azioni politiche e perfino militari di una Russia decisa a recuperare parte del vecchio potere sovietico.

 

Per quanto attiene l’aspetto più prettamente informativo di questa guerra ibrida che va sotto il nomignolo di “Dottrina Gerasimov”, l’assetto centrale è costituito dalla cosiddetta “Fabbrica dei Troll”, una serie di uffici siti in via Savushkina 55, a San Pietroburgo: conosciuta come Glavset e costituita dall’oligarca amico di Putin Yevgeny Prigozhin (lo stesso che ha creato il Gruppo Wagner), è il luogo dove la maggior parte delle cosiddette “teorie cospirazioniste” sono state se non concepite, almeno rinforzate e organizzate, e poi veicolate via internet verso l’Occidente.

Da questo centro controllato dal GRU, il Servizio Segreto Militare russo, sono diretti gli stessi hacker che sviluppano gli attacchi informatici e che si firmano con alcune sigle che includono orgogliosamente la parola “orso” (“Bear” in inglese) senza nascondere la propria origine russa: infatti i loro attacchi non sono coperti da norme di diritto internazionale e sono facilmente negabili dalle autorità politiche in quanto non giuridicamente dimostrabili ancorché perfettamente evidenti ai tecnici.

Questi attacchi hanno inizialmente colpito con particolare efficacia i Paesi Baltici, che per reazione si sono attrezzati prima di chiunque altro per la “cyber-guerra”, e ormai sono all’avanguardia in questo campo. Oggi però tutto il mondo è bersagliato, e in particolate l’Italia riceve una percentuale particolarmente elevata di attacchi informatici a cui si è attrezzata per rispondere la Polizia Postale.

La specificità con cui l’Italia è colpita dalla “cyber-guerra” rispecchia il suo ruolo di bersaglio privilegiato da parte della guerra ibrida del Cremlino; e questo a sua volta dipende dalla sua vulnerabilità. L’Italia durante la Guerra Fredda ospitava il Partito Comunista più grande dell’Occidente.  Oggi questo partito non esiste più, ma nella popolazione permane una percentuale di opinione pubblica pregiudizialmente ostile alle istanze liberali e occidentali più o meno pari a quella che si esprimeva elettoralmente in maniera più o meno amichevole nei confronti dell’Unione Sovietica e del suo modello autoritario e anti-americano.

Questa percentuale di opinione pubblica tende ad accogliere favorevolmente ogni idea o notizia che suggerisca la responsabilità maligna dell’America e della sua influenza per ogni problema mondiale. Quando per qualche ragione la responsabilità non è direttamente attribuibile al governo americano e ai suoi alleati (NATO, EU, Israele, Gran Bretagna…), allora viene assegnata d’ufficio a qualche società segreta di potentati nascosi dediti a sordidi complotti volti a soggiogare il mondo ai propri loschi fini.

Una volta fissati i protagonisti di tale narrativa, si passa alla trama: questa viene definita attingendo ad una vasta letteratura già esistente da tempo, e alla quale ci si rivolgeva per tessere gli argomenti dell’antisemitismo. Ecco che i “Savi di Sion” si trasformano nella “SPECTRE” dei “Poteri Forti” mondiali, il ruolo della massoneria viene passato a Soros e ai miliardari di Silicon Valley, quello della “plutocrazia giudaica” viene assegnato ai movimenti progressisti liberali e gli atteggiamenti razzisti sono riservati agli aspetti gender o religiosi invece che a quelli tipicamente razziali. Così come l’antisemitismo si ergeva a protezione della famiglia tradizionale, così fa la propaganda della Glavset, secondo cui la società globalizzata propugnata dall’Occidente, promuovendo la libertà di genere e il multiculturalismo, minaccerebbe tutto ciò che è sacro alla tradizione nazionale.

Un tale messaggio, come già quello antisemita, colpisce in particolare una società fondamentalmente provinciale e conservatrice come quella italiana, dove il “buon senso comune” suggerisce sempre di sospettare di tutti coloro che emergono e di tutto ciò che va per la maggiore. In particolare la percentuale di popolazione da sempre dedita ad una costante critica anti-sistema e aperta a soluzioni drastiche di opposizione al mondo esterno si rivela aperta a questa narrativa secondo cui “c’e sempre sotto qualcosa”, “le cose non stanno come ce le raccontano”, e chi sembra buono è in realtà cattivo mentre chi sembra cattivo in realtà è migliore degli altri…

Fra costoro, i più entusiasti si affidano al web, non solo per reperire quanto più possibile di questa narrativa “alternativa” e quindi pregiudizialmente considerata più affidabile, ma anche per rilanciarla e amplificarla. Sono questi i famosi “minions”.

Quando si parla di “minions”, ci si riferisce (con richiamo alle simpatiche creaturine gialle del cartone animato “Cattivissimo Me”) agli estimatori entusiasti delle teorie e dei messaggi propagati dalla Glavset, che si fanno così agenti inconsapevoli e volenterosi dell’orso Vladimiro.

 

Orio Giorgio Stirpe