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Oggi cominciamo con una banalità: fermare un esercito più forte è una cosa, rimandarlo indietro a casa sua è un’altra.

Si tratta di una banalità apparentemente ovvia, ma per i non strettamente “addetti ai lavori” può non essere del tutto chiaro in cosa consista la differenza. In qualche modo il concetto è analogo all’eterno equivoco sulle “armi difensive”: per molti appare una definizione ipocrita, ma in realtà non lo è, anche se non è semplice tracciare una riga che le separi dalle altre. In realtà il modo più semplice sarebbe osservare quale tipo di armi l’Occidente stia fornendo all’Ucraina, e quali no: qualunque cosa pensino coloro che criticano la NATO a priori, l’Alleanza sta effettivamente fornendo all’aggredito solo quei sistemi d’arma e di supporto al combattimento che occorrono per affrontare l’urto di un invasore pesantemente armato, contenerlo e arrestarlo infliggendogli perdite tali da ridurne il potenziale offensivo al di sotto della soglia critica oltre la quale non è più possibile attaccare con successo. Niente di più.

 

Le armi che invece occorrerebbero per costituire un proprio potenziale offensivo tale da respingere il nemico e strappargli con la forza i territori occupati, non vengono concesse. La conseguenza di ciò è che il potenziale militare ucraino è relativamente cresciuto a confronto di quello russo (anche se a causa delle perdite in valore assoluto sono calati entrambi, ma quello russo in maniera maggiore), ma non abbastanza da scavalcarlo ed assumere l’iniziativa.

 

Perché questo? In fondo l’Ucraina ha tutto il diritto morale di rivendicare i propri territori occupati con la forza da un aggressore non provocato.

Certo: su questo non c’è dubbio, e vorrei che fosse chiaro come la penso dal punto di vista etico. Ma da quello pratico, occorre capire che una sconfitta catastrofica della Russia non è nell’interesse dell’Europa e neppure dell’Occidente; di conseguenza, essendo l’Ucraina ormai parte integrante dell’Europa e dell’Occidente, non è nemmeno nell’interesse di Kyiv, e il presidente Zelensky se ne rende perfettamente conto.

La ricostruzione dell’Ucraina sarà un impegno economico colossale per tutti, e ritarderà inevitabilmente l’integrazione pratica e formale del paese nell’EU. Ma si tratterebbe di una sfida quasi minuscola a confronto di cosa sarebbe doversi far carico della ricostruzione di una Federazione Russa collassata su sé stessa non solo economicamente ma anche politicamente e socialmente. Per non parlare del rischio di una perdita di controllo sull’immenso arsenale nucleare che se finisse in mani sbagliate rappresenterebbe una minaccia assai più pericolosa di quella dell’autocrate Vladimiro.

 

Questi fatti sono dolorosamente chiari a tutti gli attori principali di questa vicenda tormentata, e condizionano pesantemente le modalità in cui l’Occidente può e deve sostenere l’Ucraina.

 

In questi ultimi giorni sembra che i russi abbiano ripreso l’iniziativa, ma questa volta in maniera molto più razionale e pare che operino “con una marcia in più”. Molto probabilmente la direzione delle operazioni è stata finalmente sottratta al potere politico per tornare in mano ai professionisti rappresentati da Valery Gerasimov, e si vede. L’arrembaggio scoordinato e il fuoco alla cieca sono stati sostituiti da attacchi localizzati e sistematici e da un impiego dell’artiglieria in supporto ad essi e non più fine a sé stesso.

L’aviazione tattica ha finalmente cominciato a fare il suo lavoro, operando in stretto coordinamento con le forze terrestri e in supporto alla manovra. L’artiglieria è stata concentrata nel settore prescelto per lo sfondamento, e i BTG destinati alla manovra decisiva vengono rotati in modo da evitarne un logoramento eccessivo.

Insomma: l’esercito russo sta finalmente operando all’altezza delle proprie capacità.

 

Militarmente parlando però potrebbe essere – probabilmente è – troppo tardi. Le perdite subite, in uomini e materiali, non sono rimpiazzabili in tempi utili, e nessuno degli obiettivi fissati pubblicamente all’inizio dell’invasione da Putin appare più alla portata dell’esercito russo. Il fatto stesso che stiano entrando in linea contemporaneamente alcuni prototipi ultramoderni non ancora in dotazione organica ad alcun reparto e carri armati tirati fuori dai fatiscenti depositi sovietici come i T-62 (il cui nome richiama l’anno di progettazione) dismessi da cinquant’anni, indica come la situazione degli equipaggiamenti appaia drammatica. Impiegando sul campo armi diverse la logistica si complica ulteriormente, il personale si trova ad impiegare sistemi sconosciuti e il rendimento si differenzia sempre di più fra un reparto e un altro. Il personale stesso, demoralizzato e scosso dalle perdite, vede aumentare la componente di leva e quella delle milizie, con una pericolosa perdita di coesione.

Insomma: l’esercito russo sta facendo meglio, ma non a sufficienza per soddisfare le ambizioni iniziali.

 

D’altra parte, l’esercito ucraino è esausto. Il morale è ancora molto alto, ma le perdite in termini di uomini sono simili a quelle russe (anche se trattandosi di coscritti sono più semplici da ripianare), e anche aerei e carri armati ormai scarseggiano drammaticamente. Gli aiuti occidentali arrivano, ma sono – appunto – esclusivamente “difensivi”. Artiglieria da campagna e non missilistica, missili controcarri e contraerei ma pochi carri e nessun aereo, radar, radio e droni ma niente sistemi a lunga gittata. Quanto basta per fermare i russi, non per rimandarli indietro umiliati.

 

La stessa offensiva attualmente in atto e che appare avere maggior fortuna delle precedenti, è in realtà estremamente localizzata: da quella che appariva inizialmente un’alluvione attraverso la totalità delle frontiere comuni, si è passati prima ad una offensiva regionale nel solo Donbass focalizzata su Kramatorsk, e adesso ad un attacco quasi chirurgico concentrato su Severodonetsk, l’ultimo insediamento del Luhansk ancora in mano ucraina. Un attacco di successo, dove finalmente i BTG russi manovrano come previsto, e che potrebbe portare all’occupazione della città nei prossimi giorni. Ma in nessun caso un attacco decisivo, o anche solo capace di portare l’intero Donbass in mano russa.

 

Potrebbe però essere un successo capace di salvare la faccia alla Russia e a Putin. Un successo da vendere bene sui media internazionali e soprattutto sulla propaganda interna… Soprattutto un successo che il presidente Zelensky non nega e appare perfino incline a confermare, quasi fosse nel suo stesso interesse che avvenga.

 

Con i russi bloccati sulla difensiva lungo tutto il fronte e attivi intorno ad una sola città peraltro già ridotta in macerie e l’Occidente deciso ad evitare un’escalation del tutto indesiderabile, all’Ucraina conviene una sospensione delle ostilità che consenta un inizio di recupero economico e militare. Nel contempo, con gli ucraini privi di potenziale controffensivo e il proprio esercito ormai oltre il culmine delle proprie capacità offensive, anche ai militari professionisti russi conviene arrestare le operazioni per portare a termine il raggruppamento delle proprie forze e garantirsi contro un possibile successivo ritorno offensivo ucraino.

Insomma: il governo ucraino e l’esercito russo adesso hanno per una volta un interesse convergente in un “cessate il fuoco” effettivo, magari non formale, ma comunque tale da arrestare lo spargimento di sangue e consentire un primo inizio di dialogo.

All’orso Vladimiro potrebbe non piacere, ma forse ormai è una via obbligata.

 

Orio Giorgio Stirpe