L’esercito russo ha iniziato il conflitto attaccando lungo l’intero arco della frontiera comune con l’Ucraina, e in più dalla Crimea occupata precedentemente e dalla Bielorussia teoricamente neutrale, in spregio alle più ovvie regole dell’Arte Militare, e come già commentato in precedenza, ha fallito.
In seguito ha ristretto il fronte di attacco al solo arco che corre fra Kharkiv e Donetsk, limitando lo sforzo principale al solo Donbass ma senza completare il raggruppamento delle forze recuperate dal resto del fronte, nuovamente in spregio alle norme dell’Arte Militare, ed ha fallito nuovamente.
Ora ha ulteriormente ristretto il fronte all’arco più piccolo che racchiude al suo interno praticamente la sola Severodonetsk, probabilmente accogliendo finalmente le direttive di Gerasimov dopo la sua pericolosa visita al fronte, e accogliendo finalmente qualche principio classico dell’Arte Militare come quello dello “Schwerpunkt” (punto focale) e della concentrazione delle forze e soprattutto del fuoco… Non è chiaro se sta avendo successo, ma almeno sta scuotendo finalmente i difensori ucraini. La città è quasi completamente distrutta e comincia ad assomigliare a Mariupol, e gli ucraini potrebbero prendere in considerazione l’idea di lasciarla cadere per accorciare il fronte e rafforzare ulteriormente la protezione di Kramatorsk, che rimane il Centro di Gravità della battaglia del Donbass.
Per assurdo, potrebbe trattarsi di una buona notizia.
Putin (o chi per lui) è alla disperata ricerca di una via d’uscita: l’esercito è stremato e chiaramente non in grado di concludere militarmente il conflitto in maniera soddisfacente per il regime; l’economia nazionale è al collasso per l’isolamento e le sanzioni e non è in grado di ripianare neppure in parte le perdite subite sul campo dalle Forze Armate; di fatto l’arsenale nucleare è oggi l’unica vera difesa della Russia contro i suoi nemici, reali o presunti, e questo pone il governo in una posizione quasi impossibile. Infine, la tenuta del fronte interno è un punto di domanda: apparentemente tiene, ma le crepe sono evidenti. I militari lasciano l’esercito nell’ordine delle migliaia a detta delle stesse organizzazioni sindacali russe, le notizie sulle reali perdite in vite umane da parte delle forze russe cominciano a filtrare e i negozi chiudono assieme alle fabbriche. La struttura sociale russa è tale che non assisteremmo ad un lento degrado del consenso, ma ad un crollo verticale se e quando le crepe dovessero allargarsi oltre una soglia critica.
La via d’uscita quindi è disperatamente necessaria; ma è molto stretta. Storicamente è molto difficile che un regime che basa il suo prestigio sulla forza militare riesca a sopravvivere ad un fallimento bellico; sempre storicamente, la Russia è portata ai rivolgimenti politici a seguito di disastri militari. Putin, e forse più di lui i suoi più stretti associati, vogliono sopravvivere: non solo politicamente, ma anche fisicamente.
Occorre assolutamente per questo che sia possibile offrire a sé stessi e al mondo una versione degli eventi che possa essere percepita almeno da qualcuno come un successo: qualcosa in più di un’acciaieria blindata catturata dopo tre mesi di assedio.
La “de-nazificazione” rimane un jolly da giocare: trattandosi di un concetto ridicolo in quanto applicato ad una Nazione retta da istituzioni democratiche attentamente monitorate internazionalmente e retta da un presidente ebreo subentrato da poco al predecessore scalzato in libere elezioni, qualsiasi evento può essere venduto liberamente come un gadget di “de-nazificazione”. La resa dell’Azovstal è giunta su autorizzazione del governo di Kyiv in seguito a trattative estenuanti, non ad un assalto decisivo. I termini dell’accordo non sono proprio chiari e l’affermazione ucraina che secondo tali termini i prigionieri dovevano essere scambiati potrebbe non essere del tutto vera, o più probabilmente in realtà si trattava di termini vaghi.
Di sicuro l’intento dichiarato da parte russa di voler processare tutti o alcuni dei prigionieri per presunti “crimini di guerra” non aiuta a convincere gli ucraini a sedersi ad un tavolo se l’accordo era effettivamente di procedere ad un regolare scambio. Esiste però la possibilità che Zelensky abbia fatto a sua volta un calcolo cinico e sia effettivamente pronto a sacrificare almeno parte dei difensori di Mariupol – quelli politicamente più “scomodi” quali i membri del reparto Azov – per soddisfare le necessità russe di presentarsi ad un tavolo diplomatico con qualcosa in mano.
Severodonetsk potrebbe essere un’altra pedina sacrificabile sulla scacchiera, come Mariupol.
Osserviamo la carta geografica: si tratta dell’ultima località dell’oblast di Luhansk ancora in mano ucraina, e l’oblast di Luhansk insieme a quello di Donetsk costituisce il Donbass. La sua caduta segnerebbe il passaggio di un’intera regione amministrativa in mano russa; e infatti la propaganda russa ha cominciato a premere proprio su questo concetto, sovrapponendolo a quello della “liberazione” dell’intero Donbass. Insomma: potrebbe essere che di fronte all’impossibilità militare di prendere Kramatorsk (e l’intero oblast di Donetsk di cui fa parte), la “liberazione” del Luhansk potrebbe essere un obiettivo valido per il regime russo.
Come nel caso di Mariupol, la città è ormai un cumulo di macerie inabitabile, e poiché rappresenta anche l’estremità orientale del saliente ucraino nel Donbass, costituisce un peso inutile dal punto di vista militare, importante solo da quello psicologico. Insomma: potrebbe costituire un sacrificio accettabile anche se doloroso per Zelensky, in vista di un accordo non di pace, ma almeno armistiziale.
Da Kharkiv a Kherson il fronte è stabilizzato, e perfino il fuoco di artiglieria si è placato; la resa di Mariupol è giunta quando il suo valore militare era ormai nullo e la concentrazione di forze russe intorno all’unico punto del fronte dove ancora si combatte seriamente è tale da non poter essere ulteriormente rinforzata con i reduci dall’assedio dell’Azovstal. Severodonetsk è l’ultima fiamma viva di un fuoco che si sta spegnendo per l’esaurimento del combustibile.
L’esercito russo sta cercando di completare un ultimo sforzo prima di crollare esausto, e quello ucraino non è in grado per il momento di avviare una controffensiva generale credibile (non basterà certamente un singolo battaglione di obici americani a cambiare l’equilibrio delle forze): il conflitto sta per bloccarsi dal punto di vista militare, almeno per il momento.
Se il blocco delle operazioni militari significative avviene in una situazione in cui entrambe le parti non hanno interesse politico a trattare, si ha un “frozen conflict” come nel Nagorno Karabak, dove la prima parte che riuscirà a recuperare un margine di superiorità militare riprenderà prima o poi l’iniziativa, e in questo caso si tratterà probabilmente degli ucraini: Gerasimov se ne rende sicuramente conto.
Se invece all’atto dello stallo militare le condizioni sono tali per cui entrambi i contendenti possono rivendicare una forma di successo, allora forse si potrà cominciare a discutere: ci sarà un armistizio formale e un avvio di trattative prima per uno scambio di prigionieri e una stabilizzazione della “linea di contatto” sostenibile, e poi per un accordo di pace più o meno definitivo.
Zelensky dovrà poter vantare di aver arrestato l’aggressione del secondo esercito del mondo al suo coraggioso paese; ma l’orso Vladimiro dovrà poter presentare qualche trofeo al suo popolo. Le macerie di Mariupol e di Severodonetsk, la “liberazione” del Luhansk e il processo ai membri del “battaglione Azov” basteranno a salvare il suo regime?