L’assedio di Mariupol si è finalmente concluso. Non si è certo trattato della battaglia più importante della guerra, né tantomeno di un episodio decisivo, ma in proporzione è stato il singolo evento più evidenziato dai media internazionali. Questo per una serie di concause che si sono accavallate.
Innanzitutto la storia: Mariupol è stata una delle località più contese nel conflitto del 2014, forse la più contesa in assoluto dopo l’aeroporto di Donetsk, ed è stata quella dove i separatisti filo-russi hanno subito più perdite; all’inizio dell’invasione è subito apparso come per i russi fosse importante vendicare quel particolare episodio.
In secondo luogo, uno degli obiettivi militari dell’”Operazione Speciale” di Putin era creare un corridoio terrestre che collegasse la Crimea occupata al territorio russo e la località costiera di Mariupol ne è parte integrante.
Dopo il fallimento dell’offensiva si Kyiv e la plateale mancanza di conquiste significative in ambito urbano, Mariupol è anche diventata la città più grande in cui fossero penetrati i russi, e completarne la conquista era diventata una questione di principio.
Infine, forse più importante di tutte le altre ragioni, la città era difesa fin dall’inizio – fra gli altri – dal “Battaglione Azov”. E siccome la de-nazificazione dell’Ucraina era uno degli scopi dichiarati dell’invasione, forse quello con più presa propagandistica sia sulla popolazione civile russa che sull’opinione pubblica europea, la guarnigione ucraina della città è stata da subito identificata con questa particolare unità associata ad un’ideologia “nazista”.
Ma cos’è esattamente questo “battaglione Azov”?
Si tratta di una delle tante formazioni volontarie costituite dopo la rivoluzione di Euromaidan del 2014 in risposta alla sollevazione dei ribelli filo-russi contrari al nuovo governo emerso dalla fuga di Yanukovich e all’occupazione russa della Crimea; con l’esacerbarsi della guerra civile si erano venute a formare numerose milizie volontarie politicamente motivate da entrambe le parti, con estremisti e volontari entusiasti che arrivavano da ogni parte dell’Ucraina e anche dall’estero, spesso senza una particolare coerenza politica: per esempio dall’Italia numerosi estremisti prevalentemente di destra si sono recati a combattere da entrambe le parti, ma soprattutto con i filo-russi; sempre da quella parte sono andati a combattere anche molti estremisti di sinistra. Si è trattato di una situazione simile a quella della guerra civile spagnola, dove le milizie estremiste si sono sostituite ad un esercito largamente disorganizzato.
Fra tutte le formazioni estremiste che hanno combattuto dalla parte dei lealisti ucraini, quella denominata “Azov” è stata quella militarmente di maggiore successo.
In base però al rapporto pubblicato dall’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, fra il 2014 e i primi mesi del 2015 membri del battaglione Azov risultano essersi macchiati di saccheggi e di detenzione di civili nella zona di Shyrokyne, a est di Mariupol; in particolare un civile disabile e un sostenitore della “Repubblica di Donetsk” sono stati torturati e stuprati.
Sul fronte separatista le milizie politicamente motivate – neo-nazi, trozkyste, anarchiche, comuniste, integraliste ortodosse, eccetera – sono state “normalizzate” dai Servizi russi con una serie di arresti, assassinii e sparizioni che hanno condotto alla formazione di un esercito detto della “Novorossya” completamente controllato da Mosca. Su quello ucraino, le milizie sono state in parte sciolte dopo gli accordi detti di Minsk-2, e in parte riassorbite nella “Guardia Nazionale” dipendente dal Ministero degli Interni e governata in tempo di pace dalla Polizia. Due soli gruppi estremisti sono sopravvissuti in qualche modo a tale riforma condotta a partire dal 2015 e completata nel 2017: “Pravy Sektor” e “Azov”; entrambi hanno mantenuto la loro identità, ma hanno dovuto scindersi dalla componente militare – passata appunto alle dipendenze istituzionali – e fondare dei partiti politici. Nel caso di “Azov”, si tratta del “National Corps”, che mantiene con l’unità militare un legame solamente indiretto ma comunque controverso.
Nel 2017 tutti gli ufficiali del battaglione sono stati sostituiti da personale proveniente dall’esercito regolare e i miliziani sono stati controllati per ordine del governo Poroshenko in modo da allontanare gli elementi ritenuti più pericolosi; tuttavia sicuramente un forte legame culturale con il “National Corps” non può essere negato, così come quello con la tradizione legata a Stephan Bandera. Si tratta di un personaggio della Seconda Guerra mondiale, acceso nazionalista anti-comunista, anti-sovietico, anti-polacco (esisteva una forte rivalità fra polacchi e ucraini per via dei territori contesi in Galizia) e antisemita; si appoggiò ai nazisti durante la guerra e si macchiò di crimini di guerra contro ciascuno dei gruppi a cui si opponeva, ma per il suo nazionalismo fu anche incarcerato dagli stessi tedeschi. Alla fine fu liberato perché costituisse un esercito collaborazionista, ma l’offensiva dell’Armata Rossa lo travolse e dovette rifugiarsi nella Germania Federale. Va detto che la resistenza armata dei nazionalisti ucraini, come quella dei baltici, durò fino ai primi anni ’50: la propaganda sovietica li dipingeva come “nazisti” in quanto collaborarono con essi in funzione anti-sovietica, ma va detto che all’epoca non esisteva un’alternativa possibile fra nazisti tedeschi e comunisti sovietici.
Alle ultime elezioni in Ucraina, non solo è stato eletto Presidente un rappresentante dell’opposizione per di più di origine ebraica, ma i partiti di estrema destra come il “National Corps” hanno ottenuto meno del 2% e non sono neppure entrati in Parlamento. Per questo l’accusa russa di nazismo al governo ucraino è ridicola.
Con l’inizio della guerra però i sentimenti nazionalisti si sono violentemente risvegliati, ed è possibile che il sostegno ai movimenti di estrema destra sia tornato a crescere, anche e soprattutto a causa dell’esposizione mediatica di “Azov”.
Allo scoppio della guerra “Azov” era un reggimento della Guardia Nazionale, su due battaglioni operativi dei quali uno a Mariupol e l‘altro a Kharkiv; entrambi si sono battuti particolarmente bene e ad oggi ne sono stati mobilitati altri due con volontari provenienti dalla diaspora o da altri Paesi. Quello di stanza a Mariupol è stato il più “gettonato” dalla propaganda di entrambe le parti e ha finito con l’impersonare la difesa della città, che era in realtà affidata ad una brigata di Fanteria di Marina; di fatto però è stato l’elemento più coriaceo della difesa.
Torniamo a parlare di motivazione al combattimento. Come militare professionista, non ho molta simpatia per chi combatte con una motivazione politica sovrapposta al senso del dovere verso il proprio Paese. Però quando la Patria è in pericolo, ha bisogno del concorso di TUTTI i cittadini per la sua difesa: anche di quelli con simpatie politiche discutibili. Nel caso di “Azov”, il suo Comandante afferma che meno del 20% del suo personale è di simpatie estremiste; dal mio punto di vista è già troppo, ma è un fatto che spesso un credo politico estremista conduce ad una motivazione addizionale. Le Brigate Internazionali comuniste in Spagna, le Waffen-SS naziste in Germania, la X-MAS in Italia, erano tutte formazioni militari organizzate da movimenti politici estremisti, che però hanno combattuto con estrema determinazione e rendimento anche superiore a quello delle rispettive forze regolari.
Inevitabilmente, si tratta quindi di soldati controversi.
Quelli di “Azov” però sono soldati controversi solo a causa della cultura su cui si fonda il loro reparto, e dei crimini commessi oltre otto anni fa da personale della stessa unità oggi probabilmente congedato: crimini che comunque impallidiscono di fronte a quanto avvenuto negli ultimi mesi. Dal 24 febbraio infatti, il battaglione del reggimento Azov impegnato nella difesa di Mariupol ha combattuto esclusivamente sul proprio territorio e non risulta aver commesso alcunché di criminale. Tranne forse resistere all’aggressione russa.
La pretesa dell’orso Vladimiro di sottoporli a processo appare pertanto contraria alle convenzioni internazionali, e rischia di compromettere quella che sembrava un’ottima opportunità di avviare finalmente un dialogo ragionevole.