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Cosa sta succedendo in Russia?

Non si sa. Dalle profondità del governo autocratico di Mosca filtrano voci di ogni tipo, qualche notizia incerta, ma nessuna informazione certa. Personalmente non ho accesso a tati classificati in merito, quindi le mie sono supposizioni: sono un analista militare, non James Bond.

Gerasimov è sostanzialmente scomparso dai riflettori e anche dall’orizzonte visuale, e non lo si vede neppure agli infrarossi. Ricoverato in ospedale con ferite più gravi di quanto ammesso? Rimosso o addirittura arrestato per via dei fallimenti militari in Ucraina? Non lo sappiamo, ma poco importa. L’assenza alla parata del 9 maggio ha avuto le sue conseguenze: l’esercito russo ha perduto il suo vertice e la sua testa migliore, proprio quando ne aveva maggiormente bisogno.

E Putin? Stanco? Malato? Ricoverato per un’operazione urgente? Anche queste sono tutte congetture. Ma resta il fatto che la leadership della Federazione Russa è in crisi quando più ne servirebbe una capace di governare un veliero di fatto disalberato nel mezzo di una tempesta. Ormai da Mosca non arrivano novità di rilievo da qualche giorno: l’unica è l’accordo finalmente raggiunto sulla resa dell’Azovstal, con gli ucraini che si rifiutano di riconoscere come resa e i russi che finalmente lasciano venire fuori gli ultimi difensori davanti agli occhi del mondo garantendone il trattamento previsto dalle convenzioni internazionali. Poi seguirà come giusto un normale scambio di prigionieri. Un accordo talmente ragionevole da far sorgere qualche sospetto su chi sia stato a Mosca ad accettarlo.

Che Putin abbia una salute ormai cagionevole in ragione della sua età è cosa ovvia, anche considerata la vita media dei maschi russi. Che la sua situazione clinica sia particolarmente seria è un’indiscrezione non dimostrata ma largamente accettata. Che avesse una faccia insolitamente gonfia, una postura sospetta e un visibile tremore alle mani lo abbiamo visto tutti in TV. Ma che le sue condizioni di salute avessero potuto incidere sulla decisione di aggredire militarmente l’Ucraina il 24 febbraio, rivendico di averlo scritto io nel mio primo post all’inizio della guerra.

Putin ha dedicato la sua vita a restaurare in qualche modo l’Unione Sovietica, la cui caduta ha rappresentato per lui “una catastrofe”. Questo strenuo tentativo ha marcato la sua intera azione politica, peraltro con successi visibili anche se alterni, che gli hanno garantito la fama di autocrate intelligente, capace e sostanzialmente di successo. Ha progressivamente allontanato la Russia da quello stesso Occidente a cui il suo mentore (poi ripudiato, ma senza il quale non avrebbe mai raggiunto il potere) Boris Eltsin l’aveva agganciata fino a ventilare una possibile entrata nella NATO (nel qual caso nessuno avrebbe gridato all’”espansione esagerata” dell’Alleanza?). Ha implementato una notevole espansione economica ricorrendo all’autarchia e allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali non rinnovabili del suo territorio, e ha avviato una politica estera estremamente aggressiva.

Ci sono state analisi in gran numero sui reali obiettivi di Putin nella sua visione strategica, e naturalmente non esistono certezze, anche alla luce della guerra in atto, che la maggior parte degli analisti (se non la totalità, me compreso) aveva escluso per la sua evidente irrazionalità. La visione condivisa dai più però è che Putin vivesse una concezione della Sicurezza tipica del XX Secolo e cosiddetta “a somma zero”: cioè che maggiore è la sicurezza di un attore, minore è quella degli altri. Siccome nella visione di Putin i “giocatori” legittimi della partita di scacchi globale sono solo due (Washington e Mosca), l’aumentare della sicurezza americana rappresentata dalla NATO equivaleva ad un’erosione della sicurezza russa non più garantita dall’URSS e dal Patto di Varsavia. Riconosciuto per perduto il secondo, Putin aveva pensato di ricostruire la prima sotto forma di una nuova Alleanza (la CSTO) che doveva includere le ex Repubbliche dell’URSS sotto l’egida russa; questa struttura di sicurezza doveva stabilire il suo “fronte” difensivo in una posizione geograficamente difendibile, che corrispondeva all’Istmo Ponto-Baltico, cioè la linea che corre da Kaliningrad a Odesa, e che corrisponde infatti a quella che era la frontiera di stato dell’URSS. Per questo l’indipendenza e l’associazione all’Occidente dei Paesi Baltici e soprattutto dell’Ucraina erano per lui inaccettabili.

Con una tale visione della geopolitica in Europa da parte di Putin, per gli europei restava da decidere se sacrificare la libertà di baltici e ucraini – e dei loro principi di democrazia – ai desiderata dell’autocrate del Cremlino, oppure opporsi a tale visione autoritaria e impegnarsi nella difesa di tali popoli in base alle loro personali ambizioni. I baltici resero chiare le loro ambizioni occidentali da subito, aderendo tanto alla EU che alla NATO appena pronti, mentre l’Ucraina ha fatto tale scelta solo nel 2014, quando Putin aveva già raggiunto un livello di stabilità interna e di capacità di proiezione militare tale da potersi opporre militarmente alla volontà della maggioranza degli ucraini. Il resto è storia.

La visione di Putin di estendere il controllo politico e militare russo fino ai confini della vecchia URSS richiedeva un progetto di lungo termine, ma lui ci si è impegnato con costanza e coerenza. Il deterioramento della sua salute lo ha però posto ora davanti a un dilemma: lasciar completare il suo progetto ad altri, oppure affrettare le cose.

La struttura di potere di Putin non prevede un “delfino”: come tutti gli autocrati, l’orso Vladimiro non ammette possibili rivali vicino a sé, perché i colpi di palazzo sono il normale sistema di rotazione del potere fra loro. Quindi non esiste un successore designato di Putin, e giustamente gli analisti si preoccupano del “dopo”. Non conosciamo con certezza le condizioni di salute di Putin, ma sono state fatte molte illazioni in merito, e la maggior parte di esse indicano una prognosi funesta; in tale caso, appare credibile che l’attacco all’Ucraina possa essere stato deciso in maniera meno razionale e pianificata del previsto. O perlomeno che inizialmente l’idea fosse di una semplice dimostrazione di forza per ottenere concessioni senza ricorrere ad un’invasione vera e propria, e che questa sia stata decisa d’impulso davanti alla reazione ucraina e occidentale meno morbida di quanto previsto da Putin dopo la pandemia.

Sia come sia, l’aggressione è fallita, e la leadership russa appare in una grave crisi. Se risultasse confermato che Putin è gravemente malato e addirittura sottoposto in queste ore ad un intervento d’urgenza, sorgerebbero grossi problemi circa la guida delle Forze Armate e la direzione della diplomazia in un momento di svolta delle operazioni militari, mentre si consuma cioè la “culmination” dell’esercito russo.

L’improvvisa soluzione della crisi dell’Azovstal potrebbe essere un segnale che qualcun altro ha preso le redini del gioco a Mosca; oppure potrebbe essere stato un gesto distensivo di un Putin ormai rassegnato. Anche la riunione della CSTO è stata sorprendentemente aperta, con la sola Bielorussia disponibile a sostenere l’azione russa un Ucraina, ma sempre convinta ad evitare un coinvolgimento diretto: gli altri membri hanno confermato la propria assoluta neutralità, coerente con l’astensione nel voto all’ONU. La Russia, insomma, rimane assolutamente sola; e la guerra va sempre peggio.

Riuscirà l’orso Vladimiro a vedere il risultato finale del suo ambizioso progetto strategico?