Ultime notizie

In Italia “La questione Salariale” è un problema rimosso dalla politica e dai sindacati, gestito, a volte, dagli uni e dagli altri, solo a suon di slogan, con bonus e tagli del cuneo fiscale, ma non esiste una soluzione semplice.

Sul perché in Italia gli stipendi sono fermi da trent’anni non esiste una spiegazione facile, nessuno, dalla politica ai sindacati, se ne sta “davvero” occupando.

La questione salariale è la questione italiana, che si lega tanto ai vizi e ai ritardi dell’Italia ma soprattutto alla sua mancata crescita, il problema riguarda non solo le fasce più povere, ma anche quelle medio alte.

Ragionare intorno alla questione salariale vuol dire riflettere sull’Italia e i suoi mali irrisolti; basta guardare una qualsiasi busta paga per il lavoro che faccio spesso.

La scala mobile è finita da trent’anni, ma rimane ancora tra le voci dei cedolini degli italiani, molti dei quali non erano nemmeno nati quando venne abolita.

Nei numeri delle buste paghe si sovrappongono voci sconosciute che raccontano la storia delle relazioni industriali, ma non aiutano a capire come si arriva a quella cifra in basso a destra, che, nella maggior parte dei casi, è troppo piccola.

I dati Ocse evidenziano che i redditi dei lavoratori italiani, a parità di potere d’acquisto, dal 1991 al 2023 sono scesi del 3,4%, contro un aumento del 30% e più degli altri Paesi, questo indicatore non misura i salari in sé per sé, ma nella media rientrano anche i redditi di chi lavora part-time e di chi ha un contratto precario.

I numeri dell’Ocse, facendo la media del pollo, non dicono che la singola ora lavorata oggi è pagata meno di quanto fosse nel 1991, a questo si aggiunge, che è cambiata anche la struttura del mercato del lavoro, in peggio ovviamente.

Dagli anni Novanta in poi sono entrati nel mercato nuovi occupati con forme contrattuali diverse dal classico contratto a tempo indeterminato, più donne pagate meno degli uomini, persone con contratti part-time o temporanei con poche ore a settimana, è aumentata la percentuale di lavoratori stranieri, con condizioni al ribasso, e si è impennata l’esternalizzazione dei servizi.

Questi cambiamenti nella struttura del mercato del lavoro, insieme a una crescita salariale debole, spiegano perché l’indicatore Ocse in media è sceso.

Quando in Italia si parla di salari stagnanti si tratta di salari dei servizi, incluso il pubblico impiego, che rappresenta circa il 70% dei lavoratori dipendenti.

Negli ultimi diciannove anni, nell’industria il salario è aumentato del 49%, nei servizi del 33%, nella pubblica amministrazione e nella sanità solo del 28% il Mezzogiorno arranca mentre al Nord le medie si alzano.

La questione dei salari bassi riguarda l’intera Italia, è difficile dire che oggi, a differenza di ieri, sia attraverso il lavoro che si scalano i gradini della scala sociale, la mobilità sociale legata al lavoro è limitata ed è difficile pensare di fare il salto di vita solo grazie ai proventi del proprio lavoro, tanto più se dipendente.

Nel 2021, solo il 9% dei dipendenti superava i quarantamila euro lordi annui.

Questa è una storia che riguarda tutti, che parte dall’inizio degli anni Novanta, nel 1993, archiviata la scala mobile, si passa al «protocollo Ciampi», si sposa l’idea che la politica dei redditi si costruisca attraverso le relazioni industriali con i contratti collettivi negoziati su due livelli, nazionali e aziendali o territoriali.

La commissione Giugni trent’anni fa aveva intuito il rischio della diffusione di «contratti pirata», ma sono i contratti collettivi, soprattutto in alcuni settori, che si sono moltiplicati e contemporaneamente indeboliti, alimentando lo «shopping contrattuale», ovvero l’arte scegliere quello che conviene di più tra i mille contratti depositati al Cnel.

E’ da li che redditi dei lavoratori italiani cominciano a non crescere più, avviene la stagnazione salariale, tutti i Paesi Ocse hanno vissuto il periodo di deregolamentazione dei mercati, ma solo in Italia abbiamo assistito a una stagnazione dei salari di questo tipo.

Nel 1995, il livello di produttività oraria del lavoro italiano aveva superato persino quello degli Stati Uniti, poi a metà anni Novanta, l’Europa comincia a decelerare rispetto agli Stati Uniti, e l’Italia, si distacca, e di molto, dal resto dell’Europa.

È il decennio della fine delle grandi imprese pubbliche, esplode la rivoluzione informatica, ciò che l’Italia non comprende, tranne qualche eccezione, è che non basta attaccare un pc alla presa elettrica per digitalizzarsi.

Per aumentare la produttività, servivano investimenti, ricerca, formazione, nuove competenze manageriali e una pubblica amministrazione all’altezza, fu l’assenza di questo pacchetto di politiche che spiega l’arresto italiano, e così, la produttività va in blocco e così anche il Pil, difficile che accadesse qualcosa sul fronte dei salari.

A eccezione di alcune grandi e medie industrie che, ancora oggi, ci permettono di essere la seconda manifattura d’Europa, la narrativa ci ha portato a credere che si potesse vivere di turismo o edilizia, due settori che non eccellono in termini di salari e condizioni di lavoro, o del consolatorio slogan «piccolo è bello», invece di investire su produzioni ad alto valore aggiunto, l’Italia ha difeso produzioni spesso senza futuro, spesso adagiandosi sulla cassa integrazione, per reggersi in piedi, gran parte delle imprese italiane ha scelto di competere con i produttori cinesi o di altri Paesi emergenti comprimendo i costi.

Il lavoro è stato svalutato, trasformandolo in lavoro mal pagato sfruttando la nuova flessibilità in un equilibrismo tra contrattini e salari bassi, con il lavoro che si è spezzettato, definendo così i contorni della nostra debole economia.

I contratti nazionali non hanno retto alla spinta al ribasso, le buste paga non sempre riflettono le cifre stabilite nei contratti collettivi, il vizio del sotto-inquadramento, pagare a un livello inferiore rispetto alle mansioni che si svolgono, «rosicchiare» l’orario di lavoro, far fare 20-30 minuti di straordinario non pagato ogni giorno, o non pagare domeniche e festivi.

Il tutto nascondendosi dietro il fardello del carico fiscale, che pesa sul lavoro dipendente e molto meno sul lavoro autonomo e sulle piccole o micro imprese individuali, con il cuneo fiscale, pari al 45%, viene indicato come la causa di tutti i mali.

L’Italia è sì al quinto posto tra i paesi dell’Ocse per il costo del lavoro, prima di noi ci sono Belgio, Germania, Austria e Francia, dove le cose non vanno così male, anzi, molti dei famosi cervelli in fuga dall’Italia si spostano proprio in questi Paesi, perché, tra i  motivi, i salari sono superiori ai nostri.

Nei Paesi che hanno un cuneo pari o più elevato a quello italiano, il lavoro è sì “molto tassato” ma in cambio di servizi diffusi e di miglior qualità.

In Italia la sensazione è che si paghino troppe tasse senza servizi adeguati in cambio, soprattutto se a pagarle sono in pochi, i tre quarti delle entrate Irpef arrivano da un quarto dei contribuenti, quelli che dichiarano più di 29mila euro, non proprio dei «Paperoni», per lo più lavoratori dipendenti, mentre con gli sconti sul lavoro autonomo decisi dal governo Renzi fino al governo Meloni, tutte le norme introdotte hanno reso molto più conveniente lavorare con partita Iva.

Negli ultimi dieci anni, la risposta della politica alla questione salariale, si è limitata a misure indirette; dalla decontribuzione agli sgravi fiscali, fino ai vari tagli del cuneo fiscale, tutte misure che gravano sulle risorse pubbliche, con buchi nel bilancio che devono essere ripianati da chi paga le tasse, queste misure negli ultimi anni sono state chieste a gran voce sia dal mondo sindacale sia da quello imprenditoriale, scaricandosi di responsabilità e affidando alla politica un compito che non riuscivano a portare a termine o, banalmente, a svolgere.

È lecito, visti i risultati, chiedere un tagliando alla delega che è stata data a sindacati e organizzazioni datoriali visto che nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica Cgil, Cisl e Uil sono diventati  soggetti politici, parallelamente, anche la rappresentanza datoriale ha subito diversi scossoni, il caso più noto è quello di Fiat, uscita da Confindustria nel 2009 per firmare un accordo aziendale a sé stante.

Nelle associazioni datoriali si è realizzata la stessa frammentazione vissuta dai sindacati. Federdistribuzione nel 2015, con CGIL-CISL-UIL  ha firmato un contratto al ribasso rispetto a quello di Confcommercio, mentre al tavolo per il rinnovo del contratto della logistica l’ultima volta c’erano 24 diverse associazioni datoriali.

L’idea che le relazioni industriali possano guidare la dinamica salariale italiana, da sola, non regge più.

Così è (ri)emersa di recente la discussione sul salario minimo, alla quale in passato i sindacati si erano sempre opposti, cambiando solo di recente (non tutti) posizione, anche se in realtà, nel 1954 il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio era stato uno dei firmatari, insieme a Vittorio Foa e Teresa Noce, di una proposta di legge per introdurre un salario minimo legale.

La questione salariale non ha avuto grande attenzione, ma, sono stati proclamati scioperi generali e piazze per l’articolo 18, contro la flessibilità del lavoro, la precarietà, le riforme del lavoro, nel 2025, la Cgil si è fatta promotrice di un referendum contro il Jobs Act, una riforma del lavoro che risale a dieci anni fa.

La disputa sul salario minimo è finita in opposte tifoserie, con divisioni tra i partiti e tra i sindacati per ora, si è deciso di non farne niente, con il risultato che nuovi attori, come la magistratura, stanno provando a riempire i vuoti nella politica salariale che la contrattazione «storica» non riesce più a riempire.

Dopo alcune recenti decisioni di diversi tribunali, confermate in Cassazione, è emersa la logica di non considerare più automaticamente il valore dei contratti collettivi ma di affiancare il ruolo del giudice nell’accertare la retribuzione che, come recita l’articolo 36 della Costituzione, sia in grado di «assicurare una esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia».

L’autorità salariale delegata ai tribunali, corre il rischio, che si è di fronte a un salario minimo che varia, di volta in volta, a seconda del giudice che si incontra.

Il salario minimo prima o poi si farà anche in Italia, come è accaduto in altri Paesi europei: Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo e Germania, queste misure convivono serenamente, con i contratti collettivi, ma, prima, in Italia, deve maturare un dibattito vero su forze e debolezze di questo strumento e di come possa convivere con il sistema di contrattazione.

In Italia servirebbe una commissione di parti sociali ed esperti che possa individuare cifre e modelli, togliendo la questione salariale alla disputa sindacale e politica.

Non saranno leggi o decreti a creare lavoro o aumentare i salari, non c’è una via legislativa allo sviluppo, i posti di lavoro e i salari non crescono per decreto, serve capacità di innovare e poi di adattarsi, come accadde nel dopoguerra del miracolo economico, il dinamismo del mercato del lavoro dopo la pandemia dimostra che non siamo condannati alla stagnazione, la via per uno sviluppo alto italiano c’è, ma non esistono soluzioni magiche o scorciatoie, la piazza per i salari dovrebbe partire proprio da qui, e forse è per questo che non si fa.

 

Alfredo Magnifico