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Morosini Giuseppe, Mario, Salvatore, nacque in Ferentino, nella provincia di Frosinone il 19 marzo 1913. Ultimo di nove figli nati da Giuseppe, 55enne, Capo guardia comunale, e Maria De Stefanis, 47enne, sposati nel 1891; famiglia nota per modestia e laboriosità (1).

Fanciullo di temperamento vivace, con una spiccata propensione per la musica. Il fratello Salvatore (2), di vent’anni più anziano di lui, lo introdusse già nel 1921, come «aspirante» socio, nel Circolo Fortes in fide della Società della gioventù cattolica, da poco fondato a Ferentino. Frequentò il Ginnasio da allievo esterno nel Seminario Vescovile di Ferentino, qui maturando la sua scelta di vita. Deciso a farsi prete e missionario, entrò come novizio nella Congregazione della Missione, fondata da San Vincenzo de’ Paoli. Dal 1930 al 1932 studiò presso il Collegio Apostolico Leoniano in Roma alla via Pompeo Magno.

Don Peppino era nato, soprattutto, per l’azione; un’azione, beninteso, coerente alla sua vocazione religiosa. Il fratello maggiore lo chiamava «il moto perpetuo», e richiesto ha raccontato una specie di battibecco avuto con lui quando, ultimato il ginnasio nel seminario di Ferentino, decise di entrare nella congregazione dei Preti della Missione in Roma, al Collegio Leoniano. Ecco le battute, piuttosto vivaci, del dialogo:

«Missionario? Tu?!

Che c’è di strano? Una buona cosa, mi pare.

Oh, senza dubbio … anzi, un’ottima cosa… Ma hai pensato a mamma e a papa che restano soli?

Se ci ho pensato!… |

E tuttavia, hai deciso per il missionario?

Si.

Ma, scusa, Peppino, non puoi fare il prete secolare? Te ne stai a casa tua, in santa pace, dici la Messa, vai in coro, in Cattedrale, e, intanto, svolgi anche lì la tua missione, e stai vicino a loro. 

Ma io non la intendo cosi. Mi sembrerebbe di soffocare. Ho bisogno di aria e di respiro, Il paese non è per me.

Perché sei irrequieto.

Di quello che ti pare.

Ci son tanti buoni preti, in paese…

Non dico di no … buonissimi! Io, pero, sono d’un’altra pasta: mi devo muovere, devo fare.

Ma si può sapere cosa vuoi fare?

Il missionario! In missione, c’è tanto da fare». Una missione di carità.

Poi, per un dramma sacro – “Tarsius” – dato a Roma un preludio, un intermezzo con cori e parti cantabili di squisita fattura che, l’anno dopo, dovevano valergli l’ammissione al 4° o al 5° anno del «Niccolini» di Piacenza. Come allievo del «Niccolini», fu richiesto di organizzare e dirigere, per le missioni albanesi della sua congregazione, un pubblico concerto vocale e strumentale, cimentandosi nell’interpretazione di Bellini, Mascagni, Perosi, Puccini, Spezzaferri, e un suo scherzo «Criniere al vento» fu, allora, una rivelazione non solo della sua versatilità musicale, ma anche del suo temperamento fresco, gioioso, dinamico (3).

Chiamato alle armi come Soldato di leva per la sua classe in data 10 ottobre 1933, con matricola n. 45374, fu selezionato per delegazione in Piacenza, quale chierico religioso vincolato ai voti per attestazione della Curia Vescovile di Piacenza, e provvisto di congedo illimitato provvisorio (4).

Alla conclusione degli studi, verrà a Roma per essere ordinato Sacerdote il 27 marzo 1937, il giorno di Pasqua, nella Basilica di San. Giovanni in Laterano, per mano di Mons. Luigi Traglia. Il giorno dopo celebrò la sua prima messa nella città natale. Si dedicò inizialmente alla pastorale giovanile, avendo mostrato un carattere aperto e allegro che lo rendeva adatto a tale compito.

I suoi più grandi amici li contava nel mondo dei piccoli, degli adolescenti. A decine, adunava intorno a sé i ragazzi della strada e della scuola, che gli si legavano subito di saldo affetto, perché intuivano che, nonostante la severità dell’abito talare e l’aitante figura, Don Peppino era uno dei loro, il più grande e il più forte, certamente, ma anche il più buono.

Sfogliando album di fotografie raccolte da don Morosini; in massima parte sono fotografie dov’egli campeggia, in gruppo, fra giovanetti e fanciulli. Il mondo della verità, della bellezza, della purità: un mondo di sogno. Fu assistente ecclesiastico presso l’Istituto Tecnico Navale “Marcantonio Colonna”, dove conobbe e divenne amico di Marcello Bucchi, con il quale avrebbe condiviso anni più tardi l’impegno nella Resistenza.

Don Morosini era un sognatore perché era un artista. Aveva la vocazione per la musica, come aveva avuta quella per il sacerdozio. A ventun anni, per la morte della mamma – una donna pia e forte, secondo il senso scritturale, e dalla quale aveva, certo, sortito quegli slanci di generosità e di altruismo che erano un segno distintivo del suo carattere – aveva scritto una messa funebre «sanctae ac veneratae memoriae matris meae dicata».

Più tardi l’inno, diciamo così, ufficiale del secondo Congresso eucaristico in Ceccano (la sua diocesi d’origine, alla quale era attaccatissimo) del 1937 e, nel 1939, pastorali, mottetti, litanie per i festeggiamenti del ventennale della Parrocchia nel quartiere Quadraro a Roma, su incarico di Don Gioacchino Rey.

Sul finire del 1939 tornò a Piacenza come assistente per i giovani del collegio San Vincenzo. Nel novembre 1940 organizzò e diresse un concerto in favore delle missioni della sua Congregazione in Albania (5).

Un impegno questo, una missione che, qualche volta, intendeva un po’ a modo suo, ma che era sempre informata allo spirito vincenziano; un’attività multiforme, nella quale profondeva una prodigalità che poteva sembrar disordine, ed era, invece, indice d’iniziativa feconda che lasciava orme ben nette in tutto quello che imprendeva. Dal padre – Giuseppe, come lui – già ferreo soldato della prima Italia, ligio al dovere fino allo scrupolo e oltre, aveva attinto il caldo amore per la sua patria. Dio e l’Italia. |

Come molti altri preti del suo tempo, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, chiese di diventare cappellano militare, in modo da rimanere a diretto contatto con i giovani inviati al fronte. Fu quindi assunto in temporaneo servizio per esigenze di carattere eccezionali per l’Assistenza Spirituale per il Regio Esercito quale Cappellano militare di mobilitazione, assimilato al grado di Tenente ed assegnato dal 24 gennaio 1941 al 4° Reggimento d’Artiglieria Carnaro della Divisione Bergamo in Villa Vicentina da dove, una volta equipaggiato, viene destinato a Laurana (Lovran) (6) nelle vicinanze di Abbazia e Fiume, dapprima nella zona di Fiume e poi in quella di Spalato durante le operazioni belliche contro la Iugoslavia e durante la fase dell’occupazione italiana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S’era subito ambientato; aveva fraternizzato con ufficiali ed artiglieri e scriveva lettere entusiastiche, infuocate ai suoi amici di Roma, a suo fratello, nel frattempo Maggiore d’Artiglieria: «Qui vivo come a Roma. Questi miei ragazzi mi vogliono bene come i miei ragazzi di Roma, mi seguono, come quelli mi seguivano, e, come quelli, sono buoni».

Era assetato di bontà che donava a tutti, senza riserve e senza limiti, e da tutti ugualmente ne riceveva.

Spiegazioni del Vangelo, conferenze, discorsi e, – per di più, la direzione della Banda Reggimentale: ecco, in sintesi, la sua opera missionaria in quel breve ma intenso periodo della sua vita. All’esito delle operazioni in Dalmazia, il 6 aprile 1941, collocato in congedo; tornò in Piacenza, Direttore spirituale di lovale collegio della Famiglia religiosa d’appartenenza.

Nell’autunno del 1942 venne richiamato dai suoi superiori religiosi e inviato a svolgere attività pastorale nelle regioni montuose della Sabina e delle aree abruzzesi contigue al Lazio, avendo come base la città di Avezzano. Svolse il suo compito in mezzo a notevoli difficoltà, muovendosi durante l’inverno tra i vari centri abitati. Padrone del pergamo, diventa padrone anche dei cuori per quella sua costante giovialità, per quella sua longanime bontà che gli concilia subito simpatie generali.

Con quale gioia enumera i frutti i quell’apostolato svolto, d’inverno, in paesi annidati su le montagne cariche di neve. Scarponi ferrati ed alpenstock, egli è il vero missionario di Cristo che non conosce disagi, affronta clima e fatica, spingendo la sua dedizione oltre il limite delle forze, già altra volta seriamente provate da un esaurimento. «Avanti sempre, come soldato del buon Dio» scrive al fratello, trepidante per la sua salute.

A missione ultimata, eccolo di nuovo a Roma, a lavorare in un campo per lui affatto nuovo. Accetta l’invito, senza riflettere un momento: sembra abbia fretta di fare il bene, quasi presagisca che, fra non molto, gliene mancherà la possibilità materiale.

Così «Il Popolo» dell’11 giugno 1944:

«Si trovò a Roma il 19 luglio del 1943, quando la città subì il primo bombardamento. In quella occasione furono raccolti nella Scuola Pistelli a Prati 150 ragazzi delle zone sinistrate (7). Don Morosini fu pregato di prestare l’opera sua nella direzione della scuola. Accetto subito, Vi si dedicò con quella innata ‚ espansività propria del suo temperamento e della sua anima vincenziana e sacerdotale.

Venne il 25 luglio. I gerarchi, che erano a capo dell’opera, fuggirono tutti, portandosi via quanto potevano delle riserve alimentari destinate al sostentamento dei fanciulli. Don Morosini si trovò solo a tenere e a mantenere senza mezzi quei poveri figliuoli. La sua industriosa carità seppe superare ogni ostacolo, e tutti i bambini trovarono una sistemazione conveniente».

Fiducia in Dio, fortezza d’animo, vivo senso di responsabilità, amore per il prossimo: ecco le molle che mettevano in azione la sua «industriosa carità». Non faceva distinzione fra un’attività e l’altra: il suo capacissimo cuore comprendeva tutti e si espandeva dovunque ci fosse. un po’ di bene da fare (8). Dopo l’8 settembre, gli eventi militari e politici urgono, incalzano, precipitano. Nel generale smarrimento, nella trepida e pavida attesa di troppi, nella supina acquiescenza di molti, Don Morosini sceglie, senza esitare, la sua via. Nulla, forse, potrà fare di persona; è prete, ma con lo spirito, i voti e la parola, egli è già con quanti osano sfidare il furore teutonico per il sacro onore d’Italia.

Un giorno, anch’egli si trova fra i patrioti. Entrò in contatto con la “Banda Fulvi Mosconi”, comandata da un ufficiale dell’esercito italiano, il Tenente Fulvio Mosconi, gruppo che era attivo a Monte Mario e dipendeva dal Fronte Militare Clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Quegli uomini per i quali ogni ora può essere l’ultima della loro vita, hanno bisogno dell’assistenza di un sacerdote. Don Morosini và, semplice, buono, generoso come sempre. Non misura il rischio. Ci sono delle anime, forse da illuminare, forse da conquistare (9).

In seno a questa formazione Morosini offrì inizialmente assistenza spirituale, svolgendo le funzioni di cappellano, ma nel giro di brevissimo tempo, spinto da un profondo senso patriottico, allargò il raggio delle sue attività. Gli verrà riconosciuta poi la qualifica gerarchica partigiana di “gregario” (10).

Curò personalmente o coordinò, fra l’altro, la fabbricazione e la distribuzione di documenti falsi (annonari o d’identità), il recupero e la custodia clandestina di armi, ma soprattutto la raccolta di informazioni, servendosi in questo caso anche dell’aiuto del nipote Virgilio Reali, allora studente universitario. Ebbe così inizio un’opera capillare di perlustrazione del territorio, specialmente seguendo la via Casilina, che portava non solo a Ferentino e a Frosinone, ma direttamente alle spalle della “linea Gustav”.

Le informazioni ottenute venivano poi trasmesse ai comandi alleati al Sud tramite i collegamenti radio approntati dal cosiddetto «Centro X». Il successo maggiore di Morosini fu entrare in possesso di una copia del piano operativo dello schieramento tedesco sul fronte di Cassino, che gli venne consegnata da un ufficiale austriaco ricoverato nell’ospedale militare ricavato in un’ala del collegio Leoniano.

La forzata convivenza nello stesso edificio dell’istituto religioso e del nosocomio fu sfruttata più volte da don Morosini per salvare persone in pericolo (11).

Morosini, sconvolto da quanto veniva perpetrato ai danni degli ebrei in Roma (12), si impegnò di persona, insieme a Marcello Bucchi, nel salvataggio degli ebrei che, dopo il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, avevano trovato rifugio nella vicina chiesa di Santa Maria in Campitelli, appartenente all’ordine dei chierici regolari della Madre di Dio: con la procurata complicità di alcuni dirigenti della polizia, fu organizzato il loro trasferimento, affidando gli uomini validi alla formazione partigiana di Mosconi e nascondendo gli altri nel Collegio Leoniano (13).

Sempre secondo Reali, in quei mesi Morosini si mise anche a disposizione della organizzazione costituita presso la Santa Sede dall’ecclesiastico irlandese Hugh O’Flaherty (14)con lo scopo di soccorrere sia i militari alleati caduti prigionieri o in pericolo perché trovatisi al di qua delle linee tedesche, sia i civili perseguitati (15). Da questo rapporto Morosini avrebbe ricavato anche finanziamenti per le sue molteplici iniziative (16).

Questo giuda reincarnato, Dante Bruna, abitava a pochi passi dal Collegio Leoniano.

Il Bruna era un giovane commerciante che, aveva messo da parte il suo mestiere per intraprendere quello di delatore, più redditizio in tempi così critici, in combutta con il Sottotenente della Polizia dell’Africa Italiana Domenico Campani. Protestava a Don Morosini un’amicizia sviscerata, mentre nell’anima tenebrosa macchinava il crimine orrendo. Seppe che il Sacerdote custodiva delle armi per i suoi amici patrioti e lo denunciò per mercede. Cercò anche di aggravare le responsabilità dell’«odiato prete» facendo scivolare di sotterfugio nel cassettone dove don Peppino custodiva la biancheria, una pistola automatica (17).

Il mattino del 4 gennaio 1944, Don Morosini cadde nella trappola che già da qualche mese la Gestapo gli aveva tesa. Fu arrestato da una squadra di SS al comando del Tenente Haut mentre rientrava in Collegio insieme con il Sottotenente Marcello Bucchi (già 5° Reggimento Contraerei), trucidato, poi, il 24 marzo, alle Fosse Ardeatine (18).

Si lasciò condurre senza proteste e senza viltà, con la serena coscienza di chi sa d’aver agito rettamente. Via Lucullo, Via Viminale. Albergo Flora. Interrogatori diurni e notturni interminabili, a getto continuo, facce subdole di poliziotti, minacce truculente, blandizie raffinate non servono. Nessuna arte o tortura servirà, Se vogliono la sua vita, eccola, ma se insistono per conoscere i nomi dei suoi amici patrioti, non li dirà. Non li disse mai.  Durante uno di tali interrogatori, l’inquisitore tedesco gli domandò che cosa avrebbe fatto se fosse stato rimesso in libertà. Sperava forse di udire dalle labbra di Don Morosini parole di pentimento.  Invece, Don Peppino gli rispose con semplicità e fermezza: «Continuerei a fare quel che ho fatto finora».

Fu tradotto a Regina Coeli con il Tenente Bucchi; questi, inizialmente assegnato al 4° braccio (19), lui rinchiuso in una delle più orribili segrete – la cella 382 – del 3° braccio politico tedesco. Li attenderà la sua sorte. L’attese serenamente, da sacerdote. Non perdette la calma ed il buonumore, né s’inaridì la sua limpida vena musicale. Rinchiuso nel suo stesso braccio c’era un giovane commerciante 23enne, nativo di Popoli, un piccolo centro in provincia di Pescara, Epimenio Liberi. Il giovane aveva preso parte ad atti di sabotaggio in località vicinorie alla Capitale ed a Civita Castellana e ai combattimenti per la difesa di Porta San Paolo e per questo era stato arrestato. La moglie era incinta del terzo figlio e quando don Giuseppe lo venne a sapere, gli scrisse una ninna nanna, Ninna Nanna per soprano e pianoforte, che poi divenne celebre (20).

Epimenio non conobbe mai suo figlio perché fu ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo, pochi giorni prima della fucilazione di Don Morosini a Forte Bravetta. Colà riposa nel Sacello n. 297.

Il 16 gennaio, dodici giorni dopo l’arresto, festa di San Marcello Papa, inizia e dedica al suo «indimenticabile compagno d’idealità e di carcere Marcello Bucchi» la composizione d’una «Fantasia campestre» che è tutto un volo di ali, un guizzar di luci, uno scintillio d’acque terse scorrenti, sotto il sole, lungo margini erbosi, una festa di verde e di colori, e canti a voce piena e armonie di suoni, e mormorii discreti ed un esplodere di inni trionfali.

In quello spartito di 153 pagine, l’anima assetata di luce, di poesia e di bellezza di Don Peppino, c’è tutta. Egli pensa anche che lì con lui, in quel tetro edificio, ci son tanti cuori angosciati, in ansia, torturati da dubbi e da spaventi, che, forse non sanno chiedere a chi solo può darlo, il conforto di cui hanno bisogno.

Gli hanno proibito di celebrare la Messa. Non importa. Ci son tante altre vie per giungere a cuori chiusi ed aprirli alla speranza, alle promesse immortali.

Le volte della prigione si trasformano, a sera, in un tempio. Egli intona il Santo Rosario. La sua voce calda, sonora, esce dallo spioncino e si spande per i corridoi, giunge alle anime dolorose con la forza irresistibile d’un invito divino. Dalle altre celle vicine e lontane si risponde «Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus nunc et in hora mortis nostrae...». La morte! Quante volte è entrata rumorosamente o di soppiatto in quegli antri! Quante volte la lugubre parola ha risuonato con terrore nei discorsi dei prigionieri!

Ora, però, ha perduto il suo aspetto spaventoso perché la Madre dei dolori domanda a Dio per i miseri forza, rassegnazione, coraggio. Morosini fu sempre di grande conforto per quanti condividevano con lui la triste sorte del carcere duro e delle sevizie (21).

Una magnifica pagina è stata scritta sull’apostolato svolto in carcere da Don Morosini.

«Ha echeggiato nell’androne, sonora e ferma, la voce di Don Giuseppe Morosini, che tra i condannati a morte, in attesa dell’esecuzione, è il più popolare. Don Morosini la voce dell’apostolo c’è l’ha.  Ora il padrone del carcere è lui che può gridare che “nel primo mistero glorioso si contempla la resurrezione di Gesù Cristo” e quindi intona il “Lodato sempre sia, il santissimo nome di Gesù, Giuseppe e Maria”; lui che intercala nel Rosario, all’improvviso, una frase che suona come uno squillo di tromba ed una sfida: “Preghiamo per la nostra cara Patria”. Kyrie, eleison, Christe elesion».

Poi riprende: «nel terzo mistero glorioso si contempla la discesa dello Spirito Santo sopra Maria Vergine e gli Apostoli. Lodato sempre sia».

Il coro si fa più basso; dal momento dell’Elevazione siamo in ginocchio, ed ecco che don Morosino torna a darci un brivido, gridando: «Preghiamo per coloro che soffrono» e ci ricorda che non soffriamo soltanto noi di Regina Coeli, Kyrie, eleison, Christe elesion.

Egli non si commuove, e prega e recita fermo e infervorato. La sua missione è quella: per quella visse, né sa più per quanto tempo potrà esercitarla. Sacerdote di Dio, non ha rancori: dopo il quinto mistero glorioso dice a noi con la stessa voce e lo stesso accento: «Preghiamo per quelli che ci fanno soffrire». Kyrie, eleison, Christe elesion.

Sono rientrato nella cella tutto sconvolto (22)».

Altra testimonianza d’eccellenza, in Roma il 30 giugno 1969: Sandro Pertini (23), che era allora anch’egli detenuto al carcere di Regina Coeli, lo incontrò dopo un interrogatorio:

«Detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà: egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede. Benedisse il plotone di esecuzione dicendo ad alta voce: “Dio, perdona loro: non sanno quello che fanno”, come Cristo sul Golgota. Il ricordo di questo nobilissimo martire vive e vivrà sempre nell’animo mio» (24).

Il processo fu una parodia. Rispose alle domande tranquillamente, senza iattanza. Nulla negò della sua opera di sacerdote, nulla rinnegò della sua azione di patriota. Tranquillamente ascoltò la sentenza (25).

La comunicò, poi sorridendo ai suoi compagni di cella e di braccio; e non dimenticò, quella sera, di intonare il Sanato Rosario con la stessa voce calda da apostolo. Il Tribunale aveva fissata l’esecuzione della sentenza, molto a breve, per il 20 marzo: plotone pronto, bara preparata, fossa scavata al Verano. La Santa Sede, informata alcune ore prima delle 6:00 del 20, intervenne. Fu chiamato l’Ambasciatore tedesco.

Il Pontefice in persona, nelle ore della notte, perorò la grazia del sacerdote. L’esecuzione della sentenza fu sospesa, in attesa di istruzioni da Berlino.

Tutti i cuori che trepidavano per la sorte di Don Morosini s’aprirono alla speranza. Egli si commosse della paterna sollecitudine del Papa. Parlando con i compagni di prigione disse: «Chissà se la scampo!».

Da Berlino però giunse un rifiuto alla intercessione di Pio XII: Don Morosini doveva morire (26). Alle 4:00 del lunedì santo 3 aprile, Monsignor Bonaldi entra nella cella 382.

Don Morosini riposa placidamente sul misero giaciglio. Il prelato vorrebbe tardare ancora: «Mio Dio, mio Dio!». Poi si decide. Lo chiama. Lo tocca. Don Peppino si scuote, si stropiccia gli occhi, guarda: «Monsignore, lei qui a quest’ora?».

Mons. Bonaldi non risponde, ma lo guarda con tenera, profonda pietà.

Morosini si alza lentamente: «Ho capito!».

Mons. Bonaldi si sente spezzare il cuore, e tanto giovane Don Morosini e abbozza qualche frase di coraggio. Don Peppino quasi sorridendo: «Monsignore, ci vuole più coraggio per vivere che per morire».

Quindi si raccoglie un poco e prega il Monsignore di ascoltare la sua confessione generale. Dopo l’assoluzione, sorgendo in piedi, esclama: «quant’è bella questa giornata, e come mi sento tranquillo!».

Infine domanda la grazia di poter celebrare la Santa Messa per l’ultima volta. Si tenta dapprima di negare questo supremo conforto, poi gli viene accordato. Alle prime parole dell’Introito, giunge Monsignor Traglia, Vicegerente di Roma, che si è riservato di assistere personalmente “il suo sacerdote”. «Celebrò come un santo», affermò più tardi il Vicegerente.

Quando, pronunziata la formula della Consacrazione, Don Beppino solleva il corpo e il sangue del signore, le sue mani non tradiscono un solo tremito, ma quelli che assistono alla messa eccezionale tre o quattro, in tutti i fremono di emozioni e piangono. Deposti in sacrestia i paramenti, si getta commosso, fra le braccia aperte di Monsignor Traglia che vuole essergli vicino fino all’ultimo istante: «Grazie Eccellenza!».

L’ora Suprema si avvicina. Si scendono le scale. La piccola, triste comitiva, giunge al portone di ingresso. Il furgone non è ancora aggiunto. Fa freddo. Nell’attesa, Don Morosini chiede al Vescovo il breviario e si ritira in un angolo per fare il ringraziamento della Messa. Prega, calmo ed assorto. I due militi gli si avvicinano per applicargli le manette. Il Vescovo si oppone con tutta l’energia, assumendo su di sé ogni responsabilità: il ferro che cinge i polsi dei delinquenti non deve nemmeno sfiorare quelle mani che egli stesso unse, in San Giovanni, il Sabato Santo del 1937. Il furgone giunge. Con il condannato, vi salgono Monsignor Traglia, il Cappellano e i militi. Appena si mette in moto, dirigendosi verso il traforo del Gianicolo, Monsignor Vicegerente intona il Rosario: “Misteri dolorosi”. Morosini risponde senza turbamento nella voce.

Al terzo Mistero Monsignor Traglia pronuncia il Terzo Gaudioso – è lunedì – «Eccellenza» – osserva Don Beppino il terzo mistero doloroso. «Nel quarto mistero doloroso, di contempla la condanna a morte di Nostro Signore Gesù Cristo e il suo viaggio al Calvario». A questo punto, don Morosini si volge verso il Cappellano, lo guarda e sorride.

Al Forte Bravetta, il plotone composto da dodici militari della Polizia dell’Africa Italiana (PAI) (27), è pronto, ma irrequieto. Quando quegli uomini comprendono che c’è da fucilare un prete, quel giovane prete, quello che sta fra Mons. Traglia e il Cappellano del carcere, si scambiano uno sguardo ed un gesto d’intesa. Lentamente s’avviano tutti all’ingresso del forte, passano sotto la volta lugubre e massiccia del corridoio d’accesso al piazzale interno. Presso il terrapieno è preparata la sedia alla quale Morosini viene legato. Due ufficiali tedeschi sono nei pressi, in disparte, lontano, silenziosi: il giustiziere ed il medico.

Morosini ascolta calmo e sereno Mons. Traglia che gli è accosto e gli parla; poi lo prega di portare i suoi ringraziamenti al Santo Padre, per il quale dice di offrire la vita (28); quindi, baciato il crocifisso che stringe nelle mani, lo porge a Mons. Traglia dicendogli: «Eccellenza, lo consegni a mio fratello e gli dica che il mio pensiero, in questo momento, è rivolto a lui. So quanto soffrirà».

L’uomo incaricato di bendarlo gli si avvicina e compie in fretta l’ufficio, tremando; poi si allontana di corsa, per non scoppiare in lacrime proprio lì.

Mons. Traglia stringe affettuosamente una mano di Don Morosini: «Signore, nelle tue mani raccomando il suo spirito».

«La scarica di colpi non lo colpì a morte: i soldati avevano sparato in aria, o di fianco. Allora il comandante il plotone scaricò due colpi della sua pistola sul capo di don Morosini […] [che] cadde a terra nel suo sangue purissimo, ma ancora vivo. […] Poi, il sergente della PAI si avvicinò al caduto: chinandosi sul corpo disfatto e rantolante gli diede il colpo di grazia» (29).

Tutte le testimonianze che si sono susseguite dal 1954 a oggi sono, con qualche piccola differenza, in linea con questa di Salvatore Morosini (30). La più importante è senz’altro quella rilasciata nel 1969 dal Cardinale Luigi Traglia, il sacerdote che diede assistenza a Morosini nelle ultime sue ore e che dunque fu testimone oculare della fucilazione:

«L’ufficiale comandò il fuoco, ma fosse la trepidazione, fosse un po’ di “timor reverentialis”, non lo colpirono mortalmente: cadde in avanti, perse i sensi. Mi avvicinai e gli diedi rapidamente l’estrema unzione prima che l’ufficiale gli desse il colpo di grazia; ma anche questo non lo finì; e allora gli fu scaricato addosso un fucile mitragliatore. L’ufficiale tedesco protestò, perché questo non doveva accadere; furono anzi accusati gli italiani di aver infierito sul cadavere di don Morosini. Ma l’accusa non è fondata: le guardie furono soltanto in preda ad un comprensibile panico» (31).

Questa testimonianza viene ampliata con ulteriori dettagli il 31 marzo 1974, in occasione dell’omelia tenuta da Traglia per il trentesimo anniversario del sacrificio di Morosini presso la Cattedrale di Ferentino, riportata nel volume Don Giuseppe Morosini. Ricordi e testimonianze di chi l’ha visto da vicino:

«Poco dopo [la messa celebrata da Morosini] discendemmo per lo scalone di Regina Coeli e sulla porta del Carcere c’era un gruppo della PAI (Polizia Africana Italiana – N.d.R.), che doveva scortare il condannato fino a Forte Bravetta. […] Il plotone fece fuoco, ma, un po’ l’incertezza, un po’ la preoccupazione, Don Giuseppe non fu colpito a morte. La sedia rotolò sul terreno ed egli cadde esanime. […] Poi si avvicinò l’Ufficiale per dargli il colpo di grazia. Ma anche questo non lo finì. Allora un Sergente venne con un mitra e gli sparò alla testa». (32)

Il Cardinale Traglia non lascia dubbi: esclude ogni intervento tedesco, attribuendo l’intera responsabilità alle forze armate italiane (33). Una breve raffica alla nuca, e Don Morosini cadde, riverso, nel suo sangue purissimo (34). Al Verano, qualche ora dopo, fu sepolto nel riparto 147, fila 16, fossa 27 x 2, senza croce, senza nome.

Il sole del 6 giugno doveva vedere la prima esaltazione di Don Morosini. Il corpo fu esumato, con pietà ed onore, e deposto, a cura della Direzione al Cimitero, nel riquadro 28: quello del clero romano. Sulla nuova tomba, quel giorno, si elevò la Croce di Cristo Signore, con al centro la scritta:

«Giuseppe Morosini Sacerdote Patriota eroicamente caduto il 3 aprile 1944».

Roma finalmente libera, non aveva voluto tardare a rendere il suo tributo di riconoscente amore a generoso sacerdote fanciullo. (35)

 

Il 15 febbraio 1945 la memoria dell’olocausto di Don Giuseppe Morosini fu venerata con il conferimento della Medaglia d’Oro al Valore Militare.

Così recita la motivazione:

 

 

«Sacerdote di alti sensi patriottici, svolgeva, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, opera di ardente apostolato fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano. Assolveva delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto ed alla custodia di armi.

Denunciato ed arrestato, nel corso di lunghi estenuanti interrogatori respingeva con fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della resistenza.

Celebrato con calma sublime il divino sacrificio, offriva il giovane petto alla morte.

Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria.

Roma, 8 settembre 1943-3 aprile 1944». (36)

 

L’11 aprile 1954 le spoglie di Don Giuseppe Morosini, esumate il giorno prima, furono solennemente traslate nella natale Ferentino per essere collocate nella cappella-sacrario delle vittime militari di tutte le guerre nella locale Chiesa di Sant’Ippolito, (37) dopo un solenne rito funebre celebrato in Roma presso il Collegio Leoniano, presenti alte Autorità civili, militari e religiose. (38)

Roberto Rossellini si ispirò alla sua figura [e a quella di Don Pietro Pappagallo (39)] per realizzare il personaggio di Don Pietro, interpretato da Aldo Fabrizi, nel celebre film “Roma città aperta”. (40)

Nel 1997, in occasione del 53° anniversario della fucilazione di Don Morosini, le Poste Italiane (Ministro delle Poste e Telecomunicazioni, On. Maccanico), su proposta del Sen. Luciano Manzi, hanno emesso un francobollo commemorativo in sua memoria. (41)

 

Vincenzo Gaglione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

  • Famiglia di nove figli, la MOVM era l’ultimo. Viventi all’atto del conferimento: il primogenito “Salvatore”, insegnante in scuole statali, residente in Roma. Una sorella “Rosaria”, Suora in Siena. La sorella “Vittoria” (ultima) maritata Virgili, residente in Ferentino. I genitori, entrambi deceduti. Archivio Storico del Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia.
  • Nato a Ferentino il 26 febbraio 1892. Archivio Storico del Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia.
  • Da «Il Nuovo Giornale» di Piacenza, del 29 novembre 1940.
  • Archivio Storico del Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia.
  • Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare, Le Medaglie d’Oro al Valore Militare, Volume secondo (1942-1959), Tipografia Regionale, 1965, Roma, pag. 418.
  • Ora in Croazia ma all’epoca nella provincia di Fiume.
  • Scuola elementare “Ermenegildo Pistelli”, oggi quartiere Della Vittoria.
  • Più tardi, a Regina Coeli, dirà a Mons. Bonaldi: «Vorrei avere mille cuori. Il cuore del martire, il cuore del confessore vorrei! Invece quel poco che ho fatto finora è poco e imperfetto». Luigi Accattoli, Nuovi Martiri, San Paolo, 2000, pagg. 168-170

9)       La “Banda Fulvi-Mosconi” era un gruppo operativo composto da 408 unità di cui sessanta appartenenti all’Organizzazione “Caruso”, comandato dal Tenente Fulvio Mosconi ed operava a Monte Mario. Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, Anno 2020 n. 3, pag. 198.

  • L. 6 settembre 1946 n. 93. Archivio Storico del Gruppo delle Medaglie d’Oro al Valor Militare d’Italia.
  • Il suo confratello, Padre Giuseppe Menichelli, testimoniò in seguito che «don Giuseppe faceva passare dall’ospedale militare all’altra ala del collegio patrioti, ebrei e persone da nascondere ai tedeschi. La nostra comunità religiosa era estranea all’attività di don Giuseppe, ma lo si lasciava fare». Cedrone, Don G. M.: ricordi e testimonianze di chi l’ha visto da vicino, 1994, Ferentino, pag. 16
  • Di 9700 ebrei presenti a Roma durante l’occupazione nazista: 1007 furono catturati e mandati a morire ad Auschwitz. Degli altri 8700: 3700 circa furono nascosti presso privati e 5000 direttamente dal Vaticano (3000 ca. nella residenza del Papa in Castel Gandolfo), tra i 200 e i 400 (le stime variano) furono camuffati come “membri” della Guardia Palatina ed altri dipendenti del Vaticano, mentre altri 1500 ca. furono nascosti in monasteri, conventi e scuole cattoliche.
  • Virgilio Reali, Vicende di guerra. Don Giuseppe Morosini e la resistenza, 1999, pagg. 59 e ss.
  • «La Primula Rossa del Vaticano» è l’appellativo dato a Hugh O’Flaherty, nato a Cahersiveen il 28 febbraio 1898 ed ivi deceduto il 30 ottobre 1963. Sacerdote cattolico romano, artefice della salvezza di circa 6.500 tra civili, militari e perseguitati ebrei, che fece rifugiare presso le residenze extraterritoriali vaticane e gli istituti religiosi durante l’occupazione tedesca di Roma. Tale attività, svolta beffando la polizia e l’intelligence tedesca, gli guadagnò l’appellativo: “The Scarlet Pimpernel of the Vatican”.
  • Virgilio Reali, op. cit.
  • Roma diviene la sua “terra di missione”, in quel periodo così travagliato della Storia italiana. «Una volta la settimana – scrive «Il Popolo» – si recava nelle loro caverne e nascondigli per celebrarvi la Messa e condividere con loro le amarezze di quella vita impossibile. Poi s’accorse che l’assistenza religiosa non bastava. Scarpe, vestiti, cibarie giunsero allora a destinazione con una regolarità ed una industria ammirabili. Per lui, don Giuseppe, questo era Vangelo vissuto, era una necessità del cuore, era un dovere della sua anima di sacerdote. I pericoli, i disagi e quella che qualche parassita chiama «prudenza» non li conosceva, ne fecero mai breccia nel suo animo, Ed ebbe, quindi, buon giuoco l’opera del traditore, tipica figura di delinquente disgraziato venduto ai tedeschi».
  • «[Il 4 gennaio 1944] Dante Bruna, che era riuscito ad infiltrarsi tra le fila dei partigiani aveva preso contatto con don Morosini e si era recato nella sua abitazione promettendogli di procurare armi per il fronte clandestino di Liberazione. Con questo pretesto il delatore riesce a convincere don Morosini a invitare nella sua abitazione di via Pompeo Magno 94 il sottotenente Bucchi e poi li consegnò entrambi alle S.S., in attesa dinanzi al portone. I due partigiani, sottoposti ad interrogatori in via Lucullo e all’albergo Flora, furono trucidati la mattina del 3 aprile al Forte Bravetta. Per questa impresa Dante Bruna ricevette dai nazisti una forte somma di denaro». Articolo “Dalla Suprema Corte di Cassazione. Riconfermata la condanna al delatore di Don Morosini”, in «l’Unità» del 14 ottobre 1953.
  • Riposa nel Sacello n. 279. Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria, “sul campo”. Conferimento del 4 giugno 1944.
  • Dopo poco, condannato a dieci anni di carcere dal Tribunale militare di guerra tedesco, trasferito nella cella n. 447 del terzo braccio politico.
  • Per il bambino in arrivo Don Giuseppe Morosini scrisse una ninna nanna, parole e note, che cantava tra l’altro così: “…C’è un castello di fate in riva al mare / C’è un castello di re sopra la terra / C’è una bionda regina fra le ancelle / C’è una dolce madonna fra le stelle / Il castello del re è la tua culla /E la bionda regina è la tua mamma / Che con le fate ti ripete in coro / La più amorosa e dolce ninna nanna…”. Il giovane spedì alla moglie il testo della composizione, aggiungendo a matita in fondo al foglio: “Cara Giovanna, nella mia cella c’è un amico carissimo, ti stupirai nel sentir dire che è un prete, ed è autore della presente Ninna Nanna, il mio amico Peppino, mi ha promesso che farà lui il battesimo e dirigerà l’orchestra che dovrà eseguire la presente quando si farà la festa del battesimo; se non capita qualche guaio”. Claudio Fracassi, La battaglia di Roma, Ed. Mursia, pag. 287. Il manoscritto originale di questa Ninna Nanna per un bambino mai nato è oggi conservato presso il Museo della Liberazione di Roma, sorto nel sito del carcere di via Tasso. Alcuni anni fa, al termine di una ricerca sui discendenti della famiglia di Epimenio Liberi, Antonio Poce, docente presso il Conservatorio di Musica di Frosinone e profondo conoscitore della vita di Morosini, scoprì che nel 1944 la moglie di Liberi perse il bambino dedicatario della “Ninna Nanna” a causa dello shock della fucilazione del marito.
  • Un detenuto, che a Regina Coeli aveva sghignazzato: “Voglio proprio vedere come muore un prete! Non potrà essere che la morte di un vigliacco” s’incontrò casualmente con Don Morosini quando stava uscendo dal carcere per avviarsi al Forte Bravetta. Il Sacerdote, tranquillissimo, lo guardò, gli sorrise, gli fece un cenno di saluto.
    Quell’uomo come colpito da folgore, cadde di schianto in ginocchio e scoppiò in lacrime esclamando: “Che tu sia benedetto!”. Qualche tempo dopo dichiarava a Mons. Bonaldi: “Lui è morto, ma a me ha dato la vita!”
  • Italo Zingarelli, Il terzo braccio di Regina Coeli, Staderini Editore, 1944, Roma, pagg. 32, 33 e 34.
  • Alessandro Giuseppe Antonio Pertini, detto “Sandro”, fu il Presidente della Repubblica Italiana dal 1978 al 1985, primo socialista e unico esponente del PSI a ricoprire la carica. Medaglia d’Oro al Valor Militare, per fatti d’armi in Roma, Firenze, Milano, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare, Le Medaglie d’Oro al Valore Militare, Volume secondo (1942-1959), Tipografia Regionale, 1965, Roma, pag. 682. https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/14233
  • https://www.culturacattolica.it/cultura/il-calendario-del-marciapiedaio/da-ricordare/3-aprile-giuseppe-morosini -ferentino-19-marzo-1913-roma-3-aprile-1944
  • Il pomeriggio del 5 gennaio, mentre don Morosini si accingeva ad affrontare il suo lungo calvario, il Collegio Leoniano fu messo completamente a soqquadro dalle polizia tedesca, al cospetto della Guardia Nobile di Sua Santità,  Enzo di Napoli Rampolla, che si protrasse fino al 7 gennaio quando, finalmente, trovarono, meticolosamente occultate nella biblioteca, ben 17 mitragliatrici, tre valige contenenti pistole e bombe a mano, le copie dei messaggi trasmessi e ricevuti agli alleati e al governo Badoglio a Brindisi, nonché il cifrario adoperato dal Morosini. Per questo motivo il sacerdote fu accusato di aver “esercitato traffico d’armi e spionaggio” a beneficio degli Alleati.
  • Nessuna traccia del foglio che condannò Don Morosini”, titolo dell’articolo sul “Il Giornale d’Italia” del 27-28 marzo 1964, pag. 5, relativo alla sparizione del documento di condanna a morte originale, custodito sotto un vetro, sottratto dal Museo Storico della Liberazione, presumibilmente il 14 marzo 1964, durante le Festività per la Santa Pasqua; che creò nuova attenzione sul caso, peraltro, mai risolto.
  • In alcuni documenti indicati come della “Guardia di Finanza”.
  • Pio XII volle essere informato minutamente dal Mons. Traglia, il giorno stesso dell’esecuzione “e grande fu il suo dolore nel non essere riuscito a salvare neppure un suo sacerdote”. Elio Venier, La Chiesa di Roma durante il periodo della Resistenza, inRivista diocesana di Roma, settembre-ottobre 1999, 999-1000
  • Salvatore Morosini, Mio fratello Don Giuseppe. Roma, nel X annuale del sacrificio, Tipografia Operaia Romana, 1954, Roma, pagg. 74-75.
  • tra gli altri Perrone Capano, 1963; [s.n.], 1976, pag. 826; Giancarlo Monina, 2001, pag. 594; Armando Troisio, 2014, pag. 200.
  • Elio Vernier, Il clero romano durante il periodo della Resistenza. Intervista con il Card. Luigi Traglia, «Rivista Diocesana di Roma», Vol. 9/10, n. 101969, pagg. 995-1001.
  • Alberto Cedrone, Don Giuseppe Morosini. Ricordi e testimonianze di chi l’ha visto da vicino, Terme Pompeo, 1994, Ferentino. 1994, pag. 53.
  • Il plotone d’esecuzione avrebbe evitato il bersaglio e sarebbe stato «l’ufficiale che li comandava» a infliggere il colpo di grazia a Morosini: «Diversi componenti del plotone di esecuzione non osarono colpirlo e spararono in aria o di lato, tanto che si rese necessario l’intervento dell’ufficiale che li comandava per finirlo con due colpi alla nuca e poi con il colpo di grazia. Della morte non fu data notizia ufficiale». Una ricostruzione piuttosto vaga, che evita di sottolineare la nazionalità del plotone e del suo ufficiale di comando, ma al contempo non cita alcun intervento tedesco. Giorgio Vecchio, Morosini Giuseppe, in Raffaele Romanelli (a cura di), Dizionario biografico degli italiani, Vol. 77, Treccani, 2012, Roma.
  • https://www.sanfrancescopatronoditalia.it/notizie/attualita/la-storia-di-don-giuseppe-morosini-sacerdote-della-resistenza-45442
  • Indipendente” del 3 aprile 1945, n. 52.
  • Decreto Luogotenenziale in data 15 febbraio 1945. Registrato alla Corte dei Conti il 16 febbraio 1945- guerra – Reg. 1, Foglio 266. B.U. 1945, Dispensa 11^, pag. 1046. https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/13335
  • https://www.ferentino.org/monumenti/chiese/sant-ippolito/
  • Quotidiano “Il Tempo” dell’11 aprile 1954, pag. 5.
  • Pietro Pappagallo, morto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944) è, insieme a don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta il 3 aprile 1944, uno dei due sacerdoti che hanno perso la vita perché accusati di aver dato aiuto a uomini che militavano nella Resistenza durante l’occupazione nazifascista di Roma.
  • https://web.archive.org/web/20070928072753/http://www.laciviltacattolica.it/Quaderni/2007/3761/Articolo/ Fantuzzi.html. Il don Pietrodel famoso film Roma città aperta, riassume le figure di don Giuseppe Morosini e di don Pietro Pappagallo, che fu ucciso alle Fosse Ardeatine. Tuttavia la scena della fucilazione del sacerdote a Forte Bravetta fa chiaro riferimento alla fine di don Morosini.
  • Patria” del 18 maggio 1997, pag. 35.

 

Testi per approfondimenti:

 

  • Giuseppe Adinolfi, Storia di Regina Coeli e delle carceri romane, Bonsignori Editore, settembre 1998, Roma.
  • Alberto Cedrone, Don Giuseppe Morosini. Ricordi e testimonianze di chi l’ha visto da vicino, Terme Pompeo, 1994. Ferentino.
  • Fiorello Di Canterno, Don G. M. Medaglia d’oro al valor militare, Seli, 1945, Roma.
  • Antonio Gaspari, Gli Ebrei salvati da Pio XII, 2001, Roma.
  • Giorgio Giannini, Lotta per la libertà. Resistenza a Roma 1943-1944, 2000, Roma.
  • Antonio Martino, Pertini e altri socialisti savonesi nelle carte della R. Questura, Gruppo editoriale L’Espresso, 2009, Roma.
  • Giancarlo Monina, Morosini Giuseppe, in Dizionario della Resistenza, Volume II: Luoghi, formazioni, protagonisti, a cura di Enzo Collotti – Renato Sandri – Frediano Sessi, 2001, Torino, pag. 594 e passim.
  • Salvatore Morosini, Mio fratello don Giuseppe, nel X anniversario del sacrificio, 1954 (2a , Ferentino 2001), Roma.
  • Musci, M., G., in Diz. storico del Movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello – G. Campanini, III, 2, Casale Monferrato 1984, p. 579; A. Paladini, Via Tasso. Museo storico della Liberazione di Roma, 1989, Roma, pagg. 108 e ss.
  • Orga, Una vita per l’umanità. Padre G. M., 1997, Avellino.
  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 2006, Torino.
  • Renato Perrone Capano, La Resistenza in Roma, Volumi I-II, Macchiaroli, 1963, Napoli.
  • Enzo Piscitelli, Storia della Resistenza romana, 1965, Bari.
  • Virgilio Reali, Vicende di guerra. Don Giuseppe Morosini e la Resistenza, con la collaborazione di Sabina Piroli, Editrice Frusinate, 1999, Frosinone.
  • Andrea Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, 2008, Roma-Bari.
  • Stefano Roncoroni, La storia di Roma città aperta, Le Mani Editore, 2006, Recco.
  • Carlo Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca di Roma, 1954, Torino.
  • Armando Troisio, Roma sotto il terrore nazista, Castelvecchi, 2014, Roma.
  • Elio Venier, Il clero romano durante il periodo della Resistenza. Intervista con il Card. Luigi Traglia, «Rivista Diocesana di Roma», 1969, Vol. 9/10, n. 10.
  • Italo Zingarelli, Il terzo braccio di Regina Coeli, Staderini, 1944, Roma.

 

Riviste, pubblicazioni e articoli stampa:

  • Morosini”, Indipendente n. 45 del 3 aprile 1945;
  • Il dramma di Don Morosini rivissuto ieri alla Sapienza”, Italia Nuova, giovedì 11 marzo 1948, pag. 2.
  • Ritratto di Don Morosini e del giudice che lo fece fucilare”, Il Tempo, Lunedì 15 marzo 1948, pag. 2.
  • Ritratto di Don Morosini e del giudice che lo fece fucilare”, La Nuova Stampa, domenica 14 marzo 1945, n. 64.
  • Confermata la condanna a trent’anni a colui che fece fucilare Don Morosini”, Il Tempo del 14 ottobre 1953, pag. 4.
  • Don Giuseppe Morosini”, Il Tempo, 11 aprile 1954, pag. 5.
  • Don Morosini non sarà beatificato. Il Vaticano non ritiene né eroico né virtuoso farsi fucilare dai fascisti”, «Don Basilio», anno II, n. 51, 31 agosto 1947.
  • Giustizia cristiana? Pecore con i tiranni, leoni con gli inermi, «Don Basilio», anno I, n. 12, 1 dicembre 1946.
  • Morosini, don Giuseppe”, in Enzo Nizza, Pietro Secchia (a cura di), Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Vol. III, La Pietra, 1976, Milano.
  • Indagini dell’Ufficio politico della Questura. Nessuna traccia del foglio che condannò Don Morosini”, Il Giornale d’Italia, 27-28 marzo 1964, pag. 5

In rete:

 

  • Il sacrificio di don Morosini intervista a (Mons.) Nino Morosini (nipote della MOVM) a cura di Iacopo Scaramuzzi in “La Repubblica” del 25 aprile 2023 https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2023/04/230425morosiniscaramuzzi.pdf
  • https://www.avvenire.it/agora/pagine/don-morosini-eroe
  • https://www.historyfilesnetwork.com/2023/04/04/monsignore-ci-vuole-piu-coraggio-per-vivere-che-per-morire/#
  • https://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/Forte_Bravetta_3_aprile_1944 .pdf