Kherson è stata liberata, e questo costituisce una limpida vittoria per l’Ucraina e per l’Occidente che la appoggia.
Però il Gruppo di Forze russo che la difendeva non è stato distrutto, e questo considerata la posizione tattica ormai compromessa in cui si trovava testimonia delle capacità (finora poco evidenti) della Catena di Comando da cui dipendeva. Poiché l’unico cambiamento recente è stato quello della nomina di Surovikin a Comandante Operativo nel Teatro ucraino, probabilmente questo risultato va ascritto a lui.
Intendiamoci: quella di Kherson è stata una sconfitta bruciante per la Russia e soprattutto per Vladimir Putin, che come giustamente nota Alexander Dugin, in quanto autocrate è automaticamente responsabile delle sconfitte del Paese che gli si è affidato dotandolo di poteri pressocché assoluti. Ma le conseguenze militari della sconfitta probabilmente saranno meno gravi per l’esercito russo di quanto avrebbero potuto essere.
Al momento in cui scrivo – ancora una volta dalla panchina di un aeroporto – non è tuttora chiaro come sia avvenuto esattamente il ripiegamento russo. Quello che appare evidente dai tempi, dalla situazione attuale sul terreno e dai video postati dagli stessi soldati russi è che la manovra era in effetti cominciata da almeno una decina di giorni, e che ha avuto successo nel trasbordare in salvo almeno la maggior parte – se non la totalità – dei soldati che presidiavano la Testa di Ponte.
Non si è trattato di una manovra particolarmente eroica – i soldati si lamentano di essere scappati come ladri, spesso in abiti civili – ma non è con l’eroismo che si vincono le guerre, ed è solo con dei soldati vivi che Surovikin può continuare a combattere.
Non è chiaro nemmeno cosa ne sia stato del materiale pesante dei russi in ritirata: si sa che le artiglierie erano già riparate sulla sponda orientale da tempo, ma far esfiltrare i mezzi corazzati era più difficile; probabilmente molti sono stati traghettati di notte sulle zattere da ponte, e molti altri saranno stati necessariamente abbandonati su quella occidentale, probabilmente dopo essere stati resi inservibili (in fondo parliamo dei soldati migliori e meglio addestrati della Russia).
“Soldato che scappa, buono per un’altra volta” si diceva una volta, anche se non è sempre così. Militarmente però il punto rimane che le forze di élite che difendevano la Testa di Ponte sono sopravvissute. Quanto potrà occorrere per riportarle in linea a combattere è però difficile da dire: l’evento che hanno subito è indubbiamente traumatico, il loro morale era già scosso e una fuga precipitosa in abiti civili non è il modo migliore di risollevare lo spirito combattivo; anche l’equipaggiamento è sicuramente drammaticamente ridotto, quindi nella migliore delle ipotesi la 7^ Divisione paracadutisti potrà essere reimpiegata come fanteria leggera (forse con del nuovo materiale ricevuto in via preferenziale grazie al suo status di Unità di élite)in un paio di settimane. Nella peggiore (per loro), ci vorranno mesi.
Se però il successo militare che si sperava è stato fortemente mitigato dall’astuzia di Surovikin, quello politico rimane estremamente importante. Kherson era l’unico capoluogo di Oblast che i russi fossero riusciti a catturare dall’inizio della guerra, e dopo i referendum illegali era in teoria un capoluogo di regione russo: perderlo sotto l’incalzare dell’esercito ucraino è un’umiliazione cocente per il Regime, e non c’è dubbio che Putin ne risulti personalmente indebolito in misura rilevante. Così non fosse, Dugin non si sarebbe permesso un commento tanto provocatorio.
Anche la televisione di Stato russa mostra come quanto avvenuto sul Dnipro abbia scosso le convinzioni e perfino il comportamento di figure da sempre funzionali al Regime: ci sono presentatori di notiziari che si rifiutano pubblicamente di commentare la notizia per evitare possibili problemi legali, e altri che si infervorano pretendendo di veder cadere le teste dei responsabili di una tale umiliazione.
Tutto questo rafforza le posizioni di quegli stessi “falchi” stretti intorno a Prigozhin che un tempo rappresentavano il nocciolo duro del Regime e che adesso si propongono quasi come oppositori rispetto a Putin: un Putin indebolito che nel contempo cerca di separare le proprie responsabilità da quelle dei militari.
Insomma: le fratture interne al Regime dono almeno due, e tendono a separare lo zar tanto dai “falchi” che dai tecnocrati e dai militari, due gruppi che a loro volta si detestano. Per non parlare della crescente separazione fra il Regime stesso e la società, che a sua volta è sempre più confusa e comincia a mostrare una crescente divisione fra la frangia patriottica, la maggioranza silenziosa, apatica e obbediente, e quella fascia che si è già espressa abbandonando in massa il Paese in quella che è stata la più grande migrazione di massa della sua Storia in meno di un mese.
Questa situazione di debolezza ha indotto diverse personalità in Occidente a vedere uno spiraglio per trattative di pace. E’ un fatto che da parte russa sia arrivata proprio ieri una dichiarazione apparentemente fra le più aperte sentite finora: secondo un esponente del Ministero degli Esteri, uno sbocco diplomatico prima o poi sarà “inevitabile” e dovrà condurre ad un “difficile” processo di pace la Russia e “i suoi partners occidentali”. Vero è che dalla stessa fonte sia anche giunta la chiosa per cui le problematiche che hanno condotto alla guerra sono ancora presenti, e che la Russia non possa accettare di convivere con un “Paese Nazista” ai confini.
Secondo alcune fonti stampa esisterebbe anche una corrente in seno all’Amministrazione americana che vedrebbe favorevolmente una pressione di Washington su Kyiv per favorire una trattativa. Tale corrente farebbe capo al Capo di Stato Maggiore, preoccupato per il quantitativo di armi trasferite all’Ucraina che indebolirebbe la Difesa americana.
Ora purtroppo per il momento queste a me paiono illusioni indotte dai nostri stessi desideri di veder finire quella che probabilmente è la peggiore guerra dal 1945 ad oggi. E’ vero che la liberazione di Kherson rappresenti un passo avanti verso la pace, ma lo rappresenta in quanto indebolisce l’intransigenza di una delle due parti avvicinandola al punto in cui dovrà ingoiare l’orgoglio ed accettare di rinunciare ai suoi obiettivi prebellici.
La indebolisce, ma non abbastanza da rinunciarvi già adesso, e la dichiarazione del diplomatico russo lo dimostra chiaramente: la Russia ritiene ancora di potere (e dovere) “de-nazificare” l’Ucraina, e mantenere nel farlo – in tutto o in parte – i territori che ha annesso.
Nel contempo, con la vittoria di Kherson e i progressi lenti ma costanti nel nord del Luhansk, l’Ucraina è convinta più che mai di poter liberare con la forza tutti i territori occupati dai russi: perché dovrebbe affidarsi alla diplomazia altrui e rinunciare al ripristino della propria integrità territoriale quando questo appare alla sua portata in tempi relativamente brevi?
So già la risposta a quest’ultima domanda da parte dei più convinti pacifisti: “per risparmiare ulteriori lutti ad entrambe le parti”. Si tratta di una risposta moralmente valida, ma tremendamente ingenua e che denota il totale distacco dalla situazione psicologica di chi si trova nel mezzo del conflitto. Da una parte infatti abbiamo un Regime che ha platealmente dimostrato la più totale indifferenza alle sofferenze del proprio stesso esercito; dall’altra abbiamo una popolazione ormai ben al di là della “soglia del dolore” che porta gli esseri umani ad accettare qualsiasi sofferenza pur di ottenere soddisfazione per un torto avvertito come intollerabile.
Da una parte e dall’altra, non la vedono da tempo come la può vedere chi dal conflitto si sente “fuori” e magari anche “neutrale”.
Personalmente, come penso sia chiaro a tutti, io non mi sento né “fuori” né “neutrale”. Non vedo neppure come sia possibile sentirsi così, dopo aver visto che i partigiani ucraini che hanno liberato per primi la piazza principale di Kherson hanno sentito di dover issare accanto alla loro bandiera nazionale quella dell’Unione Europea: la stessa bandiera che sventola accanto alla mia… Una bandiera che è anche la nostra.
Gli ucraini sono in guerra per difendere non solo la propria terra, ma anche la loro libera scelta di aderire al NOSTRO sistema di valori e di alleanze.
Come si fa a sentirsi “neutrali”, quando una delle principali ragioni dichiarate dall’aggressore è proprio bloccare tale libera scelta in favore dei nostri stessi ideali?
E come potrei io, militare (sebbene in congedo) italiano e occidentale, a sentirmi “fuori” quando il mio Paese e l’Alleanza a cui apparteniamo da settant’anni sono apertamente schierati e sostengono politicamente, economicamente e militarmente l’Ucraina?
Fra i nostri ideali comuni esiste anche la libertà di pensiero, e pertanto io sostengo il loro diritto a dissentire a tutti coloro che si sentono “fuori” e “neutrali”, e perfino ai simpatizzanti dell’orso Vladimiro (anche se questi ultimi li compatisco un po’); ma non accetto che si sorprendano del fatto che io invece mi sento parte di questo conflitto, e pertanto oggi festeggio la liberazione di Kherson, che è tornata all’Ucraina e quindi anche all’Europa e a noi.
Orio Giorgio Stirpe